DON ANTONIO MAIONE, LA SOFFICE VIOLENZA DEL POTERE, IL SOFFIO POTENTE DELLO SPIRITO
41742 ROMA – ADISTA

L’ironia è un’arma preziosa per chi vuole difendersi dal potere mettendone a nudo l’ipocrisia e la violenza, spesso occultata sotto “mentite spoglie”. Per questo è davvero azzeccato il titolo scelto per una biografia, scritta sotto forma di intervista, appena pubblicata, Poiché hai detto che sei stanco. La soffice violenza del potere, intervista a don Antonio Maione (a cura di Costanza D’Elia, Libreria Dante & Descartes, pp. 112, euro 12), che racconta la vita di un prete napoletano trapiantato a Napoli, di cui i nostri lettori di Adista hanno sentito più volte parlare.
Il titolo fa riferimento alla lettera che Maione ricevette dalla Curia di Napoli nel 1972, nella quale l’allora ausiliare, mons. Antonio Zama lo sollevava dal suo incarico parrocchiale affinché potesse riprendersi dall’”affaticamento dovuto al superlavoro”, “come tu stesso hai fatto presente al cardinale arcivescovo”. Solo che don Antonio non si era mai lamentato del lavoro pastorale, né aveva chiesto un periodo di vacanza, tantomeno di essere sollevato dall’incarico che stava svolgendo all’epoca, a Santa Maria dell’Aiuto, nei pressi del Monastero di Santa Chiara, nel centro di Napoli.
Quella del libro è una vicenda appositamente raccontata in forma di intervista al suo protagonista, “in modo che – scrive la curatrice nell’introduzione – il lettore possa ascoltare la storia direttamente dalla sua voce, percependone il timbro e cogliendo per quanto è possibile anche il calore dell’incontro, insieme alla capacità si scherzare e di guardare alle proprie disavventure con la padronanza dell’ironia”. Anche perché don Antonio “è una persona di relazione; è un prete, che fa certamente parte di una piccola schiera di coraggiosi e di innovatori all’interno di un’istituzione di stampo assolutistico come la Chiesa, che con il cambiamento non ha mai avuto un rapporto facile”.
Nato a Campobasso nel 1936, ordinato prete nel 1967, Maione viene “incardinato” a Napoli per volontà del card. Ursi. Ma con Ursi, che lo stimava molto, il rapporto non fu sempre facile. Dice di lui don Antonio: “Ursi non prendeva una posizione netta; faceva l’angelico, non scriveva e non firmava, partiva per la tangente e faceva discorsi di ordine teologico, aspirava al papato come successore di Paolo VI. Intanto si faceva influenzare dalle maldicenze della curia. Una volta a colloquio con Ursi mi accorsi che teneva il registratore acceso; cominciò a fischiare lo dovette spegnere. Un’altra volta mi disse: “Ti ho mandato a chiamare tante volte, perché non sei venuto?”ma nessuno mi aveva avvisato che voleva parlare con me. Un giorno il cardinale mi convocò e mi disse: “Mi risulta che fai propaganda per il comunismo”. “A me non risulta, non ho mai fatto propaganda per nessun partito…” Lui insisteva, dicendo che la fonte era sicura, ma non poteva certo essere più sicura della mia! Lui continuava a dire di sì, io a dire di no: “Se per comunismo si intende stare dalla parte dei più poveri, allora sono comunista; se si intende lottare mi faccia sapere Lei”. Ad un cero punto mi disse: “Ci sono gli emissari del partito che vengono inviati nella Chiesa per logorarne la struttura dall’interno”. “io non sono mai stato inviato da nessun partito”; lui insisteva ed io: “Eminenza, allora non posso più parlare con Lei”. “E perché?”. “Chi mi garantisce che Lei non sia un esponente dell’altro partito? Cioè la Democrazia Cristiana; e qui cambiò argomento”.
Ursi tentava di raccogliere le istanze del Concilio Vaticano II, chiusosi nel 1965, e di applicarlo in una realtà difficile e molto composita come quella di Napoli, soprattutto nella fase iniziale del suo ministero; ma era parte di quella gerarchia che il vento del Concilio minacciava con le sue personalità più profetiche ed evangeliche. E don Antonio era un prete profondamente incarnato nella realtà di sofferenza e contraddizioni sociali ed ecclesiali delle comunità nelle quali presta servizio pastorale. Per don Antonio la vita nella diocesi di Napoli non è stata quindi mai facile; meno che meno nel 1987, quando al card. Ursi subentrò il card. Michele Giordano. Dopo essere stato rimosso a causa della sua “stanchezza”, don Antonio aveva collaborato alle parrocchie S. Giovanni in Porta, poi alla Cappella Giannini, in seguito “ospitato” dalle suore passioniste, quindi dalle suore dell’Istituto Nazareth fino al 1980, anno del terremoto in Campania. La curia gli propose allora di tornare in Parrocchia, presso S. Maria dell’Ascensione nella zona “bene” di Chiaia, dove don Antonio poté lavorare, senza incarichi ufficiali e con molti boicottaggi, fino al 1995. Nel frattempo si era laureato in psicologia, si era specializzato e aveva intrapreso l’esercizio della psicoterapia, intesa come ulteriore strumento per la liberazione e realizzazione integrale dell’essere umano. Il 1995 è l’anno del caso Gaillot, la solidarietà al quale – sua e del gruppo di persone riunite nell’associazione “Partenia”, dal nome della diocesi virtuale in cui Gaillot era stato confinato – acuiranno la sua emarginazione da parte del potere ecclesiastico.
Da molti anni don Antonio vive a Pratella, in provincia di Caserta. Lì è presidente di una associazione, “La mano sulla roccia”, che riflette, discute e si mobilita (da diversi anni, ad esempio, a sostegno di Mimmo Lucano e della sua visione inclusiva della società), dove mensilmente celebra la messa con i tanti che si recano lì a vivere una esperienza di Chiesa altra. Perché sul futuro di “questa” Chiesa, quella attuale, don Maione è piuttosto scettico: “Già nell’era di Ursi mons. Pignatiello (collaboratore di Ursi con diversi incarichi in curia, docente di Teologia pastorale e direttore del settimanale diocesano, ndr), che non volle mai essere vescovo, diceva chiaramente: bisogna chiudere le parrocchie e scrivere “chiuso per lutto” o “chiuso per ferie”, e solo dopo fare la conta dei pochi davvero interessati. 50 anni fa avevo detto lo stesso; bisogna chiudere le parrocchie e investire nella formazione scolastica, perché è qui che si forma la persona. Il futuro della Chiesa sta nel de-ecclesializzarsi. Quanto più è vicina all’uomo tanto più è Chiesa, una realtà solidale aperta agli altri, e non il ghetto della opposizione agli altri uomini”.


Valerio Gigante

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