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PierFranco Bruni: il racconto del Novecento poetico italiano attraverso la figura di Carlo Michelstaedter

Carlo Michelstaedter. Il goriziano che intrecciò filosofia e poesia.

Dal labirinto al senso di infinito

di Pierfranco Bruni

Il Novecento poetico italiano è legato ad alcune coordinate che si intrecciano tra forme romantiche e annunci decadenti. La presenza di un “esercizio” della funzione letteraria esistenzialista gioca una partita importante all’interno del contesto della lirica che si libera dalle forme precostituite e assume una funzione onirico – tragica. Un poeta che ha saputo vivere in questa visione o in questo intreccio è certamente Carlo Michelstaedter. Nato a Gorizia nel 1887 e morto suicida nel 1910.

Ci sono degli elementi che serpeggiano all’interno della sua parola – metafora – linguaggio. Essi sono: – La tragedia e il labirinto. – Il tempo e la morte. – Il senso di infinito e il riferimento mitico.

In Carlo Michelstaedter tutto ciò è un attraversamento lirico vissuto sul tracciato della vi­ta. Non ci sono rapporti impossibili. Anzi costituiscono quella dimensione del dolore dentro la quale i segni e i simboli, le voci e la memoria hanno una elevata esplosione poetica. Una poetica dalle coordinate precise. Una poetica nella quale si creano nuclei mitici di ritorno. Quasi una tensione magica. Ed è proprio nel rapporto tempo-morte che questa tensione si sviluppa.

C’è un dialogo costante con i suoni e le luci della natura. Quasi in ogni poesia c’è un rafforzarsi dell’immagine prece­dente. Certo la poesia michelstaedteriana non procede soltanto per immagini. C’è il sentimento del ritorno che è soprattutto un sentimento della tensione. C’è un vociare ad incastro. Il sentimento del tragico è il tema conduttore. È la centralità ‘del discorso poetico. Ed è qui, in un incastro fra dolore e tem­po, fra inquietudine e solitudine, fra senso del perduto e ri­cerca del viaggio (viaggio come riconquista di una terra e co­me reimpossessamento della metafora della riconquista) che il suicidio diventa 1’ “estremo rifugio”.

1 nuclei mitici che ritornano sono raggruppabili in un iti­nerario quale il mare, il vento, il porto, la nave, il deserto, la terra. Il senso del distacco fa da corollario. Sono temi dell’ir­ragiungibilità e della distanza. Ma sono anche poli della ac­comunanza.

La terra michelstaedteriana è si il “deserto” (l’agonia nella disperazione) ma è anche la speranza (o forse l’illusione) di una terra promessa. Ma il dolore è nell’inquietudine:

“Dato ho la vela al vento e in mezzo all’onde del mar selvaggio nella notte oscura,

solo, in fragile nave ho abbandonato

il porto della sicurezza inerte.

Né deserto e triste

m’è apparso il mar sonante nella notte,

anzi la voce sua come un appello

mi sonò in cor della mia stessa vita,

mi parve dolce cosa naufragare

nel seno ondoso che col ciel confina,

né temuta ho la morte…”

E così l’inquietudine si fa tensione tragica. Nei versi ap­pena citati (appartengono alla poesia “A Senia”) c’è un pro­fondo travaglio esistenziale disteso completamente su una di­mensione dove i nuclei mitici sono precisi punti di riferimen­to. C’è il “deserto mare”, c’è, come abbiamo visto, “il porto della sicurezza inerte”, ci sono le “notti insonni”, c’è un re­citativo poetico che si intreccia a un canto tipico di ballata.

Ma la grande forza mitica (che forma un paesaggio da luo­ghi quasi sacrali) è ne “I figli del mare”.

Qui Itti e Senia si parlano e si trasmettono segni di iden­tità lungo il corso di un viaggio che pone continui interroga­tivi. C’è il porto. E c’è la morte. Un canto dove vibra un alo­ne magico teso sulla corda di un andare melanconico.

Ecco un passaggio:

“Senia, il porto non è la terra

dove a ogni brivido del mare

corre pavido a riparare

la stanca vita il pescator.

Senia, il porto è la furia del mare,

è la furia del nembo più forte,

quando, libera ride la morte

a chi libero la sfidò.”

E’ un ritornello che fortifica non solo la parola, ma anche le immagini che dipingono la parola. E c’è la morte, la morte come rifugio, la morte come vita, la morte come equilibrio, la morte, infine, come scelta nel viaggio.

Emblematico resta, a tal proposito, il “Canto della crisa­lide”. Ma è anche ne “1 figli del mare” che il dettato, dettato mitico soprattutto, si compie.

Così:

“No, la morte non è abbandono

disse Itti con voce più forte

`ma è il coraggio della morte’

onde /a luce sorgerà.

Il coraggio di sopportare

tutto il peso del dolore,

il coraggio di navigare

verso il nostro libero mare,

il coraggio di non sostare

nella cura dell’avvenire,

il coraggio di non languire

per godere le cose care.

Nel tuo occhio sotto la pena

arde ancora la fiamma selvaggia,

abbandona la triste spiaggia

e nel mare sarai la sirena.

Se t’affidi senza timore ben più forte saprò navigare, se non copri la faccia al dolore

giungeremo al nostro mare.

Senia, il porto è la furia del mare,

è la furia del nembo più forte,

quando libera ride la morte

a chi libero la sfidò.”

In questi versi ci sono elementi importanti che, in un cer­to qual modo, caratterizzano il quadro poetico di Michelstaed­ter. Non solo l’inquieto e angoscioso paesaggio di una dispe­razione antica è nell’identità di questo poeta, c’è anche una trasformazione mitica che coinvolge sia il processo lirico che la condensazione dei contenuti. Ecco, dunque, la consapevo­lezza del dolore e quel rapporto esemplare che dice: “la vita nella morte” e “la morte nella vita”. Bisogna combattere la paura della morte. Bisogna confrontarsi costantemente con il dolore.

“Non dare agli uomini — egli scrive in La persuasione e la rettorica — appoggio alla loro paura della morte, ma to­glier loro questa paura; non dar loro la vita illusoria e i mez­zi a che sempre ancora la chiedono, ma dar loro la vita ora, qui, tutta perché non chiedono: questa è l’attività che toglie la violenza dalle radici”.

Non bisogna barattare la morte con le illusioni. Ecco la sua scelta.

Ecco la sua coerenza graffiata sulla pagina di una trage­dia che è viva nel cuore di una poesia che non si dimentica. Il suicidio, per Michelstaedter, non è fuggire la solitudine. E’ saper vivere la solitudine in una consapevolezza che interessa tutta la storia dell’uomo.

In Michelstaedter c’è sempre “l’o­ra del distacco”. Una poesia della tensione tragica. Un poeta che segna il nostro tempo in una “ebbrezza infinita” dove amore e morte si incontrano e si ritrovano proprio “ai confi­ni del mare”. Un poeta moderno che riesce a strappare al linguaggio ottocentesco una innovazione. Innova in un contesto in cui il Futurismo non è ancora esploso completamente. E la sua presenza nel panorama poetico resta un punto di riferimento.

D’altronde il poeta nasce dentro un processo esistenziale dettato dalla filosofia. Poesia e filosofia si intrecciano attraverso un modello linguistico che porta sia al simbolo che alla metafora. Proprio intorno a questa visione la sua modernità diventa contemporaneità al di là degli esercizi soltanto stilistici. Un poeta nella profondità della vita. Un goriziano tra filosofia e poesia.

Pierfranco Bruni e Carlo Michelstaedte
Pierfranco Bruni e Carlo Michelstaedte