Giuseppe Limone
SEI SGUARDI SULLA FIGURA LETTERARIA DI UN NARRATORE ATELLANO:
PASQUALE COMINALE
Dal reale il possibile, dal possibile il reale
1) PROLOGO AL LIBRO IN CAMMINO, CURATO DALL’ASSOCIAZIONE “NOSTRA SIGNORA
DI FATIMA, OPERA DI PADRE PIO”
Questo libro, frutto dell’opera benemerita di un’Associazione santarpinese, è tessuto con tre fili: la
fede, la cultura, la spiritualità. Vi partecipano, insieme con gli scritti di tanti autori, contributi di ragazzi
delle scuole medie, coordinati dalle loro insegnanti. Si tratta di racconti, di poesie, di pensieri.
L’Associazione “Nostra Signora di Fatima, opera di Padre Pio” ha inteso raccogliere, così, una grande
eredità, quella atellana, incrociando filoni fondamentali della sua tradizione: quello teatrale, quello
religioso, quello civile. Si faccia attenzione, però: si tratta di tre filoni che non sono fra loro separati, né
separabili, perché ognuno qualifica l’altro in un intreccio di connotazioni senza fine, concorrendo a
caratterizzare una sintesi nuova, profonda e cordiale. In questa luce, l’Associazione ha avuto l’idea di
ristrutturare un vecchio fabbricato per metterlo a disposizione della comunità civile. E proprio con
queste intenzioni si è fatta promotrice di azioni benefiche e di idee innovative. Questo libro documenta,
perciò, il lungimirante modo di far viaggiare anche per altre vie la testimonianza di un’opera svolta con
assiduità da volontari che si sono, a tale scopo, generosamente associati.
Il lavoro è ricco di gemme, che qua e là brillano in sintonia. Tutti i contributi sono degni di speciale
interesse. Ognuno meriterebbe una riflessione a sé stante. Si richiama l’attenzione solo per cenni e solo
su alcuni.
Si guardi all’introduzione di Luigi Bagno e alla sua illuminante sottolineatura della fantasia e del
pudore. Si percepiscono qui, nel loro nesso specifico, l’importanza della creatività libera e quella
dell’insondabile profondità. Si badi. Qui la fantasia e il pudore si fronteggiano e si coniugano in un
rapporto di virtuosa interazione fra opposti, perché il pudore allude all’inattingibile sommerso e la
fantasia all’incontenibile espresso.
Si guardi al racconto visionario che rappresenta Gesù nel Getsemani. Si tratta di uno scritto di
Pasquale Cominale che, organizzato intorno allo schema di un cortometraggio, è un piccolo
capolavoro. Apre un incandescente spaccato all’interno di una vicenda antica, liberandola da ogni
approccio puramente rituale e facendola rivivere ai nostri occhi con potenza e partecipazione, quasi in
presa diretta. Gesù soffre, aspettando l’ora della cattura e della morte. Sarà abbandonato dai suoi
nell’ora del massimo pericolo, e lo sa. Egli non è una semplice parte in commedia all’interno di un
piano cristallizzato. Egli soffre veramente, qui e ora, e in Lui soffre il Dio che Lui è, in perenne dialogo
col Padre, che soffre con Lui. Perché Dio soffre? Non sarà forse perché Egli, in quanto uomo, è
perseguitato dagli umani e perché, in quanto Dio, proprio quegli umani e altri umani ha creato? Non
sarà forse per mostrare e dimostrare che egli non pensa gli umani dall’esterno, ma dall’interno? Questa
immersione nel dolore è un mistero. Questa cruda storia non ce lo svela, eppure dà tanti lampi di luce.
Si guardi, ancora, al successivo racconto dello stesso autore, Pasquale Cominale: all’incontro di
Giuda con Cristo. Vi si presenta un’interpretazione che lavora intorno all’ipotesi di un Giuda zelota,
impegnato in un’impresa doppiamente fallimentare: quella di anomalo discepolo di Gesù e quella di
rivoluzionario contro la dominazione romana. Ma non solo Giuda aveva tradito. Anche gli altri
discepoli tradirono, abbandonando il Maestro. Solo, diversamente si pentirono. Giuda, impiccandosi;
gli altri, dando vita alla Chiesa.
Si guardi alla bella, intensa e informata presentazione che Elpidio Iorio svolge su Atella,
raccontando le vestigia di una tradizione di grande respiro, che nasce fin dal sesto secolo avanti Cristo e
arriva – attraverso figure storicamente ragguardevoli – fino ai giorni nostri. Splendido e forte è
l’esordio di questo intervento, che muove da un pensiero di Cesare Pavese. Il proprio paese è il luogo
degli affetti primi: quello che ti aspetta sempre e sempre ti aspetterà. Non è solo un centro di ricordi,
ma di gravitazione, anche fisica e carnale. Solo chi si sente solo sa quanto sia importante avere
qualcuno che ti aspetta. Dovremmo – credo – dire, andando ben oltre una celebre proposizione: sono
aspettato, quindi sono. Il proprio luogo natale è più luoghi in uno. Si squaderna in più volti e in più
nomi: secondo le sue vie antiche, secondo le sue memorie, secondo la sua storia, secondo tutti i volti
che l’hanno nel tempo attraversato e segnato. Si tratta di resuscitare l’eco lunga e profonda della parola
“cammino”, in cui risuonano – nel battito del presente – il passato e l’avvenire. Quali, questi volti?
Quelli dei padri, delle madri, delle generazioni passate e future. I volti che hanno quel luogo
carnalmente toccato. Tutti contemporaneamente presenti: gli antichi attori delle Fabulae, i lavoratori
dei campi, Virgilio, Augusto, Mecenate, Quinto Novio, Gneo Nevio, Cicerone. Quello del vescovo
Elpidio rifondatore e, con lui, quello di Orazio Magliola, vescovo, quello di Marco De Simone, dei
fratelli Boerio, missionari, quello di padre Pasquale Ziello, di fra Lodovico Fiorillo, servo di Dio,
quello dell’abate Vincenzo De Muro, scrittore, quello dell’avv. Carlo Magliola, dello storico Francesco
Paolo Maisto, del valoroso Giuseppe Macrì. Un luogo è le sue vie, i suoi nomi, i suoi volti, e i nomi e i
volti di quelli che se ne sono occupati. Ma un luogo è le sue pietre e il modo in cui esse si sono,
all’interno di uno spazio-tempo, configurate. Le pietre parlano. E qualche volta cantano: le strutture dei
palazzi a corte, la vite e il pioppo, i giardini, le grotte sotterranee per il vino, i cellai, il verde smeraldo
delle coltivazioni, i campi di grano. Le pietre parlano. E noi siamo chiamati a essere – tutti – tanti
piccoli Michelangelo che chiedono alla propria pietra che parli. Un grappolo di voci sempre in noi abita
e prega. Un’interminabile filiera di persone – sempre vive – passa ogni giorno per le nostre strade. E
Atella è stata una grande fonte di specialistici studi: Vincenzo De Muro (1757-1811), Theodor
Mommsen (1817-1903), Amedeo Maiuri (1886-1963), Francesco Paolo Maisto, e tanti altri. Molti
nomi ancora potrebbero e dovrebbero essere ricordati: don Alonso III Sanchez de Luna, ideatore del
Palazzo ducale (edificato fra il 1574 e il 1592), i nobili Caracciolo, il giudice Luigi Compagnone
(nonno del noto scrittore), Vincenzo Legnante, che fu dotto avvocato e gentile sindaco del Comune di
Sant’Arpino. Mi permetto di far emergere alla memoria anche io qualche altro volto, degno di
considerazione e di storia: i fratelli Francesco e Leone D’Anna, caduti nella prima guerra mondiale;
l’illustre medico Alfonso Guarino; l’anarchico Luigi Landolfi; il colonnello Luigi Capone, nobile
ufficiale dell’esercito italiano; e mi si perdonerà se ricordo, ancora, Giuseppe Maria Limone,
straordinario segretario comunale e avvocato, uomo pio e consulente dei poveri, di cui si è spesso
occupato l’avvocato Vincenzo Legnante e a cui il Comune di Sant’Arpino ha intitolato una strada (“via
Limone”, ma mi permetto di osservare che questa denominazione dovrebbe essere meglio precisata e
integrata). Ricorderei anche suo figlio Orlando Limone, prefetto della Repubblica, che al padre
Giuseppe dedicò un aureo libretto, oggi conservato in alcuni archivi atellani e nella Casa comunale di
Sant’Arpino. Ma un paese non è fatto solo da coloro che hanno lasciato opere e scritti. Ci sono state
persone buone e rette, che è altrettanto doveroso ricordare. E io richiamerei qui alla memoria il medico
Giuseppe Giordano, suo fratello Raffaele e il sacerdote Francesco Lettera. Come diceva un acuto
scrittore, il mondo potrebbe andare avanti benissimo senza uomini dotti, ma perirebbe senza uomini
buoni. Questa presentazione di Elpidio Iorio, però, ha anche un altro merito: quello di individuare
alcuni punti focali dell’identità geo-culturale atellana, in particolare il Palazzo ducale, la Chiesa di
Sant’Elpidio e la straordinaria Chiesa di San Francesco di Paola, vero gioiello d’arte, purtroppo
parzialmente saccheggiata, oggi allocata nel cimitero comunale. Si tratta di tre monumenti che
costituiscono – insieme col Municipio della zona archeologica, col Castellone delle terme romane e con
una parte dell’antica vasca del fiume Clanio – un ideale circuito che fa del territorio santarpinese una
caratteristica figura a farfalla. Non è un caso il fatto che proprio in questi ultimi anni, sulla scia di una
tradizione urbanistica che risale agli anni Ottanta, il Comune di Sant’Arpino sta provvedendo –
attraverso l’opera dell’arch. Antonio Memoli, professionista intelligente, tetragono e indefesso – a un
piano regolatore capace, nelle sue linee generali, di salvaguardare antichi luoghi, infrastrutture sociali,
verde pubblico e piste ciclabili. Visitare un territorio come quello atellano non è attraversare una
semplice storia locale: si tratta, invece, di comprendere a fondo il contributo che ogni suo figlio ha
prestato alla storia di tutti, gocce d’acqua in un unico mare.
Si guardi al racconto di Giuseppe Di Liberto, nel quale si esplora il mito della Sfinge alata, venuta
alla luce durante gli scavi compiuti nella piazza di Sant’Arpino. Si tratta di un mito che, investigato in
tutte le sue declinazioni, mostra una straordinaria ricchezza di scandagli negli angoli più oscuri
dell’umano. Un mito ancora tutto da meditare. L’incesto è un antico tabù e contiene in sé grandi
misteri. Si pensi alle tante maschere in cui vive e si forma la corrente di fuoco dell’umano.
Si guardi all’articolo di Giorgio Catena, che con puntualità e discrezione presenta l’importanza e
l’attualità della tradizione atellana nel mondo contemporaneo, nella ferma consapevolezza che siamo
tutti «nani sulle spalle dei giganti», come aveva icasticamente scritto il grande Bernardo di Chartres,
vissuto tra la fine dell’undicesimo secolo e i primi trent’anni del dodicesimo.
Si guardi alla rimemorazione che Elpidio D’Antonio svolge, in un rapido schizzo, sulla figura del
Mahatma Gandhi. Il grande profeta indiano è disegnato nelle linee essenziali del suo messaggio, da cui
emerge – in contrasto col mondo presente – la dirompente idea della non violenza come verità
permanente e universale. Capace di essere invincibile, se un popolo fedelmente e attivamente le crede.
Si guardi alla testimonianza di Iolanda Boerio sulla sua esperienza di docente nelle scuole
elementari, raccontata con intelligenza e passione. Bisogna preoccuparsi dei piccoli allievi nella loro
destinazione e vocazione al futuro, e occorre avere il coraggio di associarsi in centri operativi, per
trasformare l’ambiente in cui si vive, ambiente tanto devastato da avidità stupide e cieche. Chi mai
avrebbe osato pensare che sarebbero nate persone capaci di avvelenare la stessa terra in cui
continuavano a vivere con i loro figli e nipoti? Bisogna, perciò, instancabilmente combattere la propria
buona battaglia, in nome di una responsabile cittadinanza attiva, fatta di piccoli e grandi gesti, di
coraggio e tenacia, di testimonianze operative che si spera diventino contagiose.
Si guardi al racconto di Giovanni D’Elia su un evento di trasfigurazione che tiene insieme il mondo
animale e quello umano. Una misteriosa intuizione di unità percorre i momenti più acuti della
narrazione, facendo soffrire e pensare. Anche il soffrire è una forma del pensare.
Si guardi al racconto che Antonio Dell’Aversana – ricercatore infaticabile, meticoloso, appassionato
– ricostruisce sulla figura di Vincenzo Mondo, artista santarpinese che ha illustrato, con le sue pitture e
in luoghi disparati, importanti chiese degli Stati Uniti d’America. La persona di Vincenzo Mondo è
accompagnata dallo sguardo dello studioso con una straordinaria ricchezza di documenti e di dati,
anche molto difficili da trovare.
Si guardi alla creazione grafica di Alessio D’Elia, che mette in scena, su uno sfondo di stelle, la
Sfinge alata e Giuseppe Macrì. Vi si commemora così, simbolicamente accostata alla figura dell’antico
mito, quella del Macrì, messinese garibaldino della prima ora, patriota, studioso, benefattore dei poveri,
il quale acquistò, restaurò e corredò di nuove opere il bel Palazzo ducale Sanchez de Luna,
emblematicamente affacciato sulla piazza principale di Sant’Arpino.
Si guardi al racconto di Gisella D’Anna, in cui emerge con forza il suo rapporto di bambina con la
figura della nonna amata. La scrittura di Gisella ha sempre la peculiare capacità di essere semplice
nella forma e ricchissima, quasi eidetica, nel ricordo dei particolari. La brevità e l’intensità della
narrazione attraversano queste righe, come un lampo di luna piena.
Si guardi al singolare racconto del “canapino”, scritto da Giuseppe Dell’Aversana, originale nella
descrizione e nella tessitura. La narrazione è degna di interesse non solo per la castigata emozione con
cui racconta una storia d’amore, ma per un’intuizione profonda che l’attraversa sottotraccia, quasi
inconsapevole di sé, eppure tanto consapevole degli abissi che mette alla luce. Lo scritto, mentre
racconta l’antica tradizione della coltivazione della canapa, vi coglie un’illuminante struttura. Coltivare
la canapa è una filiera di atti: seminare, raccogliere, essiccare, lavorare. Sono atti che si ripetono senza
sosta, esprimendo una tradizione che ha dato, in un tempo non lontano, pane e lavoro a migliaia di
famiglie contadine. Il risultato di questa lavorazione collettiva è stata una corda, di varie fogge e
dimensioni, con la quale è stato attraversato – quasi conquistato – tutto il mondo. Ma proprio qui si
coglie una sommersa e straordinaria affinità con un’altra lavorazione che, pur sembrando molto
diversa, rivela profonde analogie con la prima. È la filiera di atti che conduce – con attività esteriori e
interiori – alla creazione di un libro. Anche il libro nasce da un seminare, da un raccogliere, da un
essiccare (cioè da un concettualizzare) e da un lavorare (cioè da un esprimere con immagini e parole).
Anche lo “scippare” la canapa è un atto creativo, che fa emergere un frutto fecondo dal ventre della
terra; così come dalla propria vita, di notte e di giorno, gli esseri umani estraggono intuizioni alla luce.
I produttori di canapa assemblano fili e gesti, gli autori di libri mettono insieme esperienze e parole: gli
uni fanno conglomerati di corde, gli altri conglomerati di pagine e figure. In entrambi i casi si ha un
seminare, un raccogliere, un essiccare, un lavorare, un esporre alla luce, un alimentare. Non si
dimentichi che la stessa canapa è un alimento e che il libro è un alimento senza eguali. Si tratta della
somiglianza nascosta che tiene insieme il lavoro e il discorso, l’érgon e il lógos. L’uno e l’altro
nascono da un raccogliere, un intrecciare, un costruire, un soffrire, un offrire: un léghein (raccogliere),
un plékein (intrecciare), un páschein (esperire e soffrire), un lógos (pensare, discorrere, parlare). Non si
dimentichi che per Giambattista Vico la stessa “lex”, cioè la legge, atto che mette insieme regole e
parole, etimologicamente nasce dall’idea del raccogliere in un cesto, in un paniere. La canapa è come il
libro, il libro è come la canapa, ed entrambi sono frutto di lavoro e pensiero: un’invenzione e una
scoperta dell’umanità. Esiodo, come è noto, scrisse in esametri il grande poema Le opere e i giorni. Si
intrecciano – nello sforzo comune degli uomini – le opere delle mani, le costruzioni dell’intelletto, le
sequenze dei giorni, lo sfavillare dei desideri, l’accensione degli scontri, l’interagire delle emulazioni,
le avventure degli amori. Ma Esiodo sapeva già, fin dai suoi tempi, che bisogna distinguere fra la
selvaggia competizione e la nobile emulazione. Potrebbero sembrare la stessa cosa, ma non è così,
perché un diverso spirito le muove. Noi, purtroppo, l’abbiamo dimenticato. Il racconto di Giuseppe
Dell’Aversana, così, sembra evocare la molteplice eco che si sprigiona all’interno di queste affinità.
Belli sono i racconti e i testi poetici che si susseguono (Luigi Bagno, Raffaele Pennacchio, Giovanni
D’Elia, Orlando Limone, Pasquale Cominale, Giuseppe Bagno, Francesco Cominale, Gennaro
D’Auria, Elpidio D’Antonio), atti a generare più sguardi e prospettive. Sarebbe troppo lungo esaminarli
in dettaglio. Si noti, fra l’altro, che qui sono raccolti, non a caso, testi in italiano e in napoletano, come
a sottolineare l’internazionale forza di questa lingua popolare. Il mio contributo di scritti è stato solo un
doveroso segno di riconoscimento e d’incoraggiamento a chi si è messo su una promettente strada,
inaugurando una pratica buona.
Si guardi, infine, ai racconti e alle poesie dei ragazzi, scritti in forma individuale o in gruppo,
presentati dalla Dirigente Maria Debora Belardo. Tutti sono imperniati su esperienze che costituiscono
autentiche scoperte (Martina Senzio, della classe II B, coordinata dalla prof. Rita Marisol Magro;
Raffaella Tessitore, della II B, coordinata dalla stessa prof. Rita Marisol Magro; Ginevra Bagno, della I
E, coordinata dalla prof. Maria Rupa; Maria Luisa Dell’Aversana, della II L, coordinata dalla prof.
Serena Virgilio; Amalia Fatima Chiacchio, della II B, coordinata dalla prof. Rita Marisol Magro;
Nicole Cirillo, della II B, coordinata dalla stessa prof. Rita Marisol Magro; Denise Cristiano, della II B,
coordinata dalla stessa prof. Rita Marisol Magro; Filomena Lavino, della II B, ancora coordinata dalla
prof. Rita Marisol Magro; Tommasina Lavino, della II B, coordinata dalla stessa prof. Rita Marisol
Magro; Classe I B, coordinata dalla prof. Ivana Cecere; Classe I C, coordinata dalla stessa prof. Ivana
Cecere; Classe II C, coordinata dalla prof. Nunzia Pezzella). Vi serpeggia l’attenzione a più temi e
figure: a favole antiche acutamente riattualizzate (Biancaneve, Cenerentola), al migrante, al senzatetto,
all’amicizia, all’amore. Come se ogni tema percepisse nell’altro la linea affettiva che li tiene insieme.
Come si vede, si tratta di un libro a più voci, che ha coinvolto più menti, più cuori, più lavori, più
persone, tutte originalmente presenti nella loro identità. Anche questo è un preciso merito
dell’Associazione che ha promosso l’iniziativa. Questi ragazzi, da grandi, se ne ricorderanno. Anche
questo è un seminare e un raccogliere.
Ma il territorio santarpinese è solo un pezzo del più grande territorio atellano, e questo libro lo sa.
La stessa collocazione del fabbricato ristrutturato dall’Associazione “Nostra Signora di Fatima” dice la
sua apertura all’intero universo atellano (Succivo, Orta di Atella, Frattaminore, Cesa, e forse una parte
della stessa Grumo Nevano, se non anche Frattamaggiore e Crispano). Credo che questo libro sia anche
una corda lanciata a tutti i paesi atellani, perché sappiano riconoscere e praticare il meglio di un’antica
identità: un’identità a cui hanno lavorato e stanno lavorando in tanti.
Vorrei solo ricordare, fra i molti meritevoli (e chiedo scusa a tutti gli altri cui spetterebbe apposita
lode), Peppino Petrocelli e Salvatore Di Leva, che da anni esercitano una tenace militanza – di scienza
e di arte – intorno alle vestigia atellane. In questo senso, credo che sia particolarmente encomiabile il
contributo di Giuseppe Dell’Aversana, attuale sindaco del Comune di Sant’Arpino, che ha voluto
essere presente in questo libro, quasi a rappresentare la sua doppia veste: di primo cittadino e di
appassionato interprete di una Pro Loco atellana. Personalmente, spero che questa nuova corda lanciata
diventi un altro libro: quello che racconterà una rinata nobiltà civile, cioè comunitaria, in una terra
difficile e strana, eppure tanto ricca di talenti e di risorse da mostrare, troppo spesso nascosti e
disseminati.
Questo libro è, oggi, un sasso in un lago, lanciato perché sulla superficie dell’acqua si scriva, al
grado futuro, l’immagine d’una Atella antichissima e nuova. Se una comunità riesce a essere
intelligentemente orgogliosa della sua identità, questo orgoglio farà certamente ricchezza e valore.
Vocazione teatrale, sentimento civile, sensibilità religiosa, dicevamo. Ma ognuna delle tre
componenti diventa una cosa diversa, se è congiunta alle altre. Ciò può generare, fra le tante possibili,
una miscela cangiante, eppur sempre originale. Il popolo atellano è capace di avere la bocca per spada,
la spada per canna da passeggio, la canna per armonica a bocca e la bocca e la canna per fiore, casomai
da portare agli amici e ai comuni defunti al cimitero; ma questo popolo ha e avrà sempre – insieme con
la bocca, la spada e la canna – cuore.
Fede, cultura, spiritualità, dicevamo all’inizio. Si tratta di capire una cosa decisiva: difficilmente
compresa, difficilmente riconosciuta, eppure luminosamente vera. La cultura è importante, ma non
basta, perché non trasforma l’uomo: semplicemente raffina quello che egli già ha. Un uomo,
diventando molto colto, può restare qual era: diventando un raffinato, se non verniciato, eccellente
mascalzone. Per trasformare, occorre la spiritualità, che è l’incontro interiore con la necessità di
rinnovarsi e rinascere; ma una spiritualità, per toccare la sua radice, non può sussistere senza una fede.
Non c’è vivere umano senza una fede. Anche il cosiddetto non credente è un credente. L’unica
differenza rispetto al credente è nel fatto che, mentre il non credente non sa di credere, il credente lo sa.
Ma cultura, spiritualità e fede sono, innanzitutto, atti di speranza. Questo piccolo libro è un segno di
speranza. Documenta un modo di fare, di impegnarsi, di progettare, di promettere ancora.
Il primo modo di testimoniare la speranza è dare l’esempio. Più potente del dimostrare, è il
mostrare. Se lo faccio io, puoi farlo anche tu.
2) UN TUFFO NELLA STORIA A RITROSO
Con questi quattro lunghi racconti Pasquale Cominale conferma e potenzia le caratteristiche della
sua scrittura, strutturata intorno al talento visionario di chi lavora nel passato incarnando nei dati offerti
dalla storia due forze motrici: interiorità da scavare e azioni da immaginare. Già altrove abbiamo avuto
modo di individuare i nodi di questo talento, che accetta i vincoli della storia non per farsene
imprigionare, ma per farsene ispirare.
Nell’itinerario così squadernato davanti agli occhi del lettore accadono due cose, consapevolmente
assunte nella loro capacità di sconcertare: l’apparizione di figure, per così dire, contemporanee con chi
legge e la rivisitazione di vissuti che non solo non sono cristallizzati in un passato immobile, ma
mordono ancora qui, come insorti a interrogarci daccapo. La farfalla che appariva morta sul ciglio della
strada improvvisamente si leva, coinvolgendo la nostra vita presente in un tempo senza tempo.
La sequenza dei racconti è consapevolmente presentata in modo rovesciato rispetto al cronologico
scorrere degli eventi storici: si parte con Anita Garibaldi, si prosegue con Costanza d’Altavilla, si
incrocia la figura di Gesù di Nazareth e si arriva, infine, a Spartaco, primo testimone di una storia che
non ci ha mai abbandonato. Da un tempo moderno si passa a un tempo medievale, fino a un tempo
gesuano e a un tempo pre-gesuano.
Perché partire dai tempi più vicini per arrivare a quelli più lontani? Perché le radici continuano ad
appartenerci e ad accompagnarci nel presente, anche se mai ce ne accorgiamo, e solo l’invertire
letterariamente la loro sequenza può farci percepire, con una mossa di spaesamento, la sorgività di ciò
che sembra lontano.
Si suol dire che la storia è maestra di vita e si suole rispondere, con Eugenio Montale, che la storia
non è maestra di nulla, perché gli umani continuano a percorrere in modo diverso le medesime strade.
D’altra parte, come pure è noto, Benedetto Croce scriveva che la storia è sempre contemporanea: e lo
diceva, nella sua prospettiva, non per dire che occorresse violare quella che si chiama la prospettiva
storica, ma perché ogni storia raccontata – lo si sappia o no – è prospettata da chi la scrive secondo
occhi, interessi e sensibilità contemporanei.
Potrebbe certamente dirsi, e sempre si dirà, che si può migliorare nella propria sensibilità umana e
nelle proprie capacità conoscitive, facendo attenzione a ciò che è accaduto, per non ricadere negli errori
del passato. Ma sarà impresa molto spesso vana, almeno dal punto di vista argomentativo, perché
chiunque potrà sempre sostenere, pur nella condivisione dei fatti storicamente accertati, che si trattava
di condizioni diverse o uguali, a seconda della prospettiva a partire da cui si guarda. Ciò nonostante, il
riaccostarsi ai fatti antichi, quasi per abbeverarsene daccapo, è sempre una salutare sfida, perché
sempre permette una nuova rimeditazione sul presente. E ciò è ancora più vero quando ci si incontri
con talenti o con studiosi che, ognuno nella sua prospettiva, siano capaci di far vivere daccapo la
farfalla in quiete.
Fra gli studiosi contemporanei vorrei citare un solo esempio: Alessandro Barbero, per la sua
mirabile capacità di far coincidere vita e precisione. Non si tratta di divulgazione, come in modo
dozzinale si dice, ma di scientifica ri-creazione. Così come può essere artistica ricreazione quella che,
indossando i panni antichi, li fa riemergere dalla loro antichità.
In questo senso, potremmo dire che ci sono quattro modi diversi per fare “storia contemporanea”: il
primo modo consiste nel presentare biografie da museo all’interno del tempo presente; il secondo modo
consiste nel guardare le biografie del passato senza prospettiva storica; il terzo modo consiste nel
guardare le biografie del passato all’interno di domande e sensibilità contemporanee; il quarto modo
consiste nel guardare le biografie del passato come contemporanee alle nostre, pur senza violare la
prospettiva storica, ma sentendo quelle vite allo stesso modo in cui noi viviamo le nostre, cioè incerte
sul loro futuro. Il talento visionario è quello che eccelle in questo quarto modo. Egli non solo coglie le
interiorità del passato come contemporanee al suo tempo, ma sente in quanti modi diversi potrebbero
incarnarsi nei dati fissi che la storia offre, scegliendo con fantasia e perspicacia quello che può essere
stato. Potrebbe raccontarsi tutto ciò con una speciale metafora: così come una interiorità psichica,
incarnandosi in un corpo fisico e storico, vi incontra ostacoli e possibilità, allo stesso modo un talento
visionario legge i modi in cui le interiorità del passato incrociarono i propri limiti corporei e storici,
restando a noi contemporanee. Questo talento non ricalca dall’esterno quelle circostanze e quelle
figure: le indossa. Vivendole da dentro e daccapo.
Potremmo dire, proseguendo nella nostra metafora, che a chi pratica una scrittura letteraria in cui
gettare i propri vissuti accade un’analoga cosa: tuffare la propria interiorità nei limiti di una lingua
storica, vivendone vincoli e possibilità, là dove le possibilità di questa lingua arrecano altre risorse al
proprio sentire. Infatti, fuori di quei vincoli, si perderebbero alcune possibilità. E, d’altra parte,
entrando in altri vincoli, e quindi in altre lingue, si sfiderebbero altri ostacoli, incontrando altre
possibilità. È il problema perenne di ogni autore che pensi in più lingue, così come è il problema
perenne di ogni traduzione.
Anita Garibaldi rivive nel suo mondo e nel nostro; Costanza d’Altavilla ci interroga dal mondo della
sua clausura violata e incoronata; Gesù viene ricollocato e ripensato all’interno del mondo di
Gerusalemme, dei Romani, dei sacerdoti e degli zeloti, che erano i rivoluzionari irredentisti del loro
tempo; Spartaco viene rivissuto nella sua crudezza, perfino violenta, e nella sua nobiltà.
Proprio per questa capacità del testo di presentarsi come contemporaneo, esso appare aprire più
problemi di quanti ne chiuda.
Concentriamoci, per adesso, sulla specifica modalità con cui viene rappresentato Gesù di Nazareth.
Qui accade come se i vari passi del Vangelo – di quelli canonici e di quelli apocrifi – si ricomponessero
nel panorama di un unico contesto, come in un diorama. I vari luoghi e racconti dei tanti Vangeli si
proiettano in un’unica rappresentazione di teatro, a cui lo spettatore non è estraneo.
La scrittura dell’autore si muove su grandi piani-sequenza, come in un film, concentrando ogni tanto
l’attenzione su piccoli dettagli, su intrecci, su caratteri, con improvvisi zoom e grandangoli. Questa
scrittura, sempre lineare e curata, è qua e là interrotta – come è nello stile dell’autore – da improvvisi
squarci di spaesamento.
Il senso della prospettiva storica, pur criticamente lodevole, può spesso mortificare il guardante e il
guardato, quando non consente di vedere il cosiddetto “passato” all’interno di una (sua e nostra) liquida
contemporaneità. Un talento visionario può generare uno choc nuovo. Il quale non museifica il passato,
ma lo richiama in vita. Mentre – perché no? – consente anche a noi contemporanei di guardarci dal
futuro. Si tratta di uno choc speciale, nel quale chi vive nel tempo presente si sente improvvisamente
innestato nella corrente del passato, così come accade per l’innesto di un dito in una rete elettrica, in
quell’evento che alcuni autori, come Jean-François Lyotard, hanno chiamato “branchement”. In una
novella di Luigi Pirandello si sperimenta uno sguardo di tipo nuovo: quello di guardare noi stessi con
un cannocchiale dal versante del lontano. In questi racconti di Pasquale Cominale, forse, è in gioco
un’operazione ancora più complessa: quella del guardare le persone passate dal versante oculare del
vicino e, contemporaneamente, noi e loro dal versante oculare del lontano. In una lezione non solo
storica e non solo letteraria, ma etica.
3) IL TENENTE E FILOMENA: COME NELL’ACCADUTO IL POSSIBILE, NEL POSSIBILE IL
FUTURO
Scriveva Aristotele che la storia studia ciò che è accaduto, mentre l’arte si occupa di ciò che è
soltanto possibile. Ci sono opere, però, che si occupano contemporaneamente dell’accaduto e del
possibile. Come in un foglio a più strati, leggibili in trasparenza, l’Autore, Pasquale Cominale,
compone più storie, in cui si presentano insieme l’accaduto e il possibile. Tutto è raccontato, per così
dire, con inchiostro simpatico, come se il possibile, nel porsi come accaduto, potesse emergere allo
sguardo con più o meno forza a seconda del calore emozionale di chi vi leggerà. Si tratta di un racconto
che chiama all’intelligenza della memoria e del cuore, perché solo con questa intelligenza si arriva alle
viscere. Uno scritto può avere una singolare chiaroveggenza, che vede non il futuro nel presente, ma il
possibile nel passato. Il possibile, in questa luce, è come il futuro: opera e affiora dalle profondità.
Chi arrivi a Sant’Arpino, attuale borgo dell’antica Città atellana, può accorgersi subito della
centralità che possiedono, nel suo assetto urbanistico, il Palazzo ducale e la Chiesa di sant’Elpidio, che
perimetrano da versanti opposti la piazza, già sede di scoperte archeologiche in passato (fra le quali, la
magnifica Sfinge alata, oggi conservata fra i reperti del Comune). Chi parli con i santarpinesi e gli
atellani può accorgersi ben presto della traccia profonda che hanno lasciato nella loro memoria la figura
di Giuseppe Macrì – militante garibaldino, ufficiale d’esercito, proprietario del Palazzo ducale,
benefattore dei poveri – e la figura della sua misteriosa convivente, detta dalla voce popolare Filomena
del Tenente. Nessuno degli abitanti di oggi può aver incontrato queste persone, ma tutti le ricordano.
L’occasionale visitatore potrebbe domandarsi come mai queste due figure siano restate tanto
impresse nell’immaginario popolare. Antiche leggende di fantasmi presenti all’interno del Palazzo
sono, per così dire, tracce antropologiche della persistenza di un mito. Se le Fabulae atellanae sono
state un mito fondatore dell’antica Atella, se il vescovo Elpidio ne è stato – dopo secoli – un mito
rifondatore, se la storia delle esperienze religiose e teatrali, le vicende dei signori del Palazzo ducale,
gli scritti di alcune figure eminenti, i riti culinari e i ricordi di alcune lotte civili ne sono stati snodi in
un tessuto narrativo ben radicato nell’immaginario comune, può ben dirsi che le figure di Giuseppe
Macrì e della sua misteriosa Filomena ne sono diventate, agli inizi del Novecento, l’ultimo mito
rifondatore. Atella è, perciò, un mito e una storia. E chi affonda le mani nel grembo di un mito sembra
arrivare, come un’ostetrica, alla prima carne di una plurimillenaria matrice, origine e fondazione.
Per questa antica terra sono passati Augusto, Mecenate, Virgilio, i Vandali di Genserico, i vescovi
Elpidio e Canione, i duchi di Aragona, il vescovo Orazio Magliola. Ne hanno cercato le tracce, lungo i
secoli, Vincenzo De Muro, Carlo Magliola, Francesco Paolo Maisto, Theodor Mommsen, Amedeo
Maiuri, Vincenzo Legnante, don Gaetano Capasso, Franco Elpidio Pezone, Antonio Memoli, Marco
Dulvi Corcione, Gennaro Franciosi, Carlo Lanza, Lucia Monaco, Osvaldo Sacchi, Francesco Cammisa
e numerosi altri, dotati di intelligenza e spessore. Ne ha studiato programmaticamente la storia l’Istituto
Studi Atellani, già fondato e diretto da Sosio Capasso, oggi presieduto da Franco Montanaro, con la
partecipazione di tanti soci operosi come Franco Pezone, Carmine Pezzullo e Francesco Ziello, detto
dagli amici Cicciariello. Si tratta di un benemerito Istituto che pubblica, fra l’altro, una Rassegna
Storica dei Comuni, diretta dall’infaticabile Marco Dulvi Corcione, professore e magistrato. Della
tradizione atellana si sono tramandate, nei secoli, più testimonianze, fra le quali la Tragedia di
sant’Elpidio, rifondatore e patrono di Atella, il Carnevale atellano e la Zeza. Nel secolo scorso, di
questa tradizione ci sono state più riprese, e a più mani, fra le quali quella promossa negli anni
Cinquanta – sulla scia dei parroci suoi predecessori (don Antonio Limone e don Giovanni Casaburi) –
dal parroco don Eugenio Bencivenga1 e quella riproposta in modo nuovo, negli anni Settanta, con
spirito d’iniziativa e con intelligenza organizzativa, da Pasquale Dell’Aversana, che ha vivacemente
operato, fra i giovani, in programmi di azione e di animazione, anche di carattere teatrale, religioso e
sportivo, come la messa in scena di un presepe vivente e la creazione di una squadra calcistica,
divenuta poi il “Sant’Arpino” (vi ha poi giocato, a mia memoria, anche il nostro campione di calcio
Lorenzo Insigne). Di questo antico lascito di tradizioni religiose è stato sempre cultore il Comitato dei
festeggiamenti di sant’Elpidio, operosamente diretto da Alfredo Cinquegrana. Alle rappresentazioni
teatrali hanno partecipato, in più momenti e a più titoli, Francesco D’Antonio (nella funzione di
regista), Ciccillo Cominale (nel ruolo di sant’Elpidio), Innocente D’Anna (detto “Ninuccio”, nel ruolo
di Genserico, re dei Vandali), Antonio Sagliocco (anche lui nel ruolo di Genserico), Gennaro
Montesano (nel ruolo del diavolo), Tina Cominale (nel ruolo dell’angelo), Mimì Capasso (nel ruolo di
Quinto, luogotenente di Genserico), Antonio Dell’Aversana (nel ruolo di Afro, servitore di Genserico),
Peppino Del Prete, Lidia Cicala, Franco Pezone, Giuseppe Arbolino, Roberto Compagnone, Salvatore
Brancaccio (pure lui nel ruolo di Genserico), e ancora, in una filiera di successive eredità: Raffaele
Lettera (detto “Capitone”), Biagio Pezzella (detto “Biase”), Pasquale Bagno (detto “Paccone”),
Pasquale Compagnone (detto “o’ killer”), Mario Gabola, Vincenzo Cicatiello, Vincenzo Nasti, Elpidio
D’Antonio, Luigi Mundo (all’epoca bambino), Vituccio Compagnone (detto “Puparuolo”), che curava
1 Come Giovanni Iorio lucidamente ricorda, uno dei primi copioni della tragedia di sant’Elpidio fu scritto da Mario
Cirillo. Già bambino, era stato affettuosamente adottato da Giovanni D’Elia, nonno dell’omonimo Giovanni, funzionario
regionale e giornalista, nostro contemporaneo, mio compago di scuola e mio amico. Cirillo fu giovane di belle speranze e
operoso cultore di cose letterarie.
col violino le musicalità; e, nei tempi più recenti, con il Carnevale e la Zeza di Virginio Guida,
ricordiamo Raffaele Copertino, Gianmaria Colella, Domenico Dell’Aversana, Giovanni e Tonino
Ferrante, Gennaro D’Auria; e sarebbero da citare tanti altri ancora, una volta giovanissimi, oggi
anziani. Si ricordino, inoltre, in relazione a vicende passate e a figure di antenati, le iniziative e le
ricerche – accurate, appassionate, puntuali, innovative – di Giuseppe Petrocelli, di Antonio
Dell’Aversana2, di Alfonso Aversano (detto affettuosamente “Sarotto”), di Salvatore Di Leva, di Livio
e Fiorenzo Marino, di Salvatore Di Vilio, di Giuseppe Dell’Aversana, di Luca Dell’Aversana, di
Elpidio Iorio, di Giuseppe Bagno3, di Luigi Bagno, di Elpidio D’Antonio, di Antonio Moccia, di
Giuseppe Benincasa, di Virginio Guida, di Vincenzo Crispino, di Geppino Firmani, di Salvatore
D’Angelo, di Rito Del Prete, di Andrea Russo, di Antonio Ferrante, di Elpidio Ciuonzo, di Salvatore
Rainone, di Enrico Crispino, di Luigi De Santis, di Giuseppe Diana, di Stefano Di Foggia, di Mimì
Crispino, di Giuseppe Di Liberto, di Elpidio D’Anna, di Raffaele D’Anna e di tanti altri che, in
modalità diverse, ancora oggi si esercitano in questo impegno di pionieri. Sulla tradizione atellana e
sulla stessa figura di Giuseppe Macrì e di Filomena ha scritto, con intelligente e puntuale dedizione,
Fiorenzo Marino4. E si ricordino, fra coloro che hanno trasformato le tradizioni atellane in un impegno
produttivo di tipo artigianale e commerciale, la famiglia Petrone, Mimmo Limone, la famiglia
Cuomo-Capasso, la famiglia Salvato-Ziello, la famiglia Gifuni5, la famiglia Arena6, la famiglia Bagno
(detta di “Paccone”), e altri ancora.
Con iniziativa benemerita, nel 1981 – anno del Bimillenario virgiliano – si realizzò un gemellaggio
culturale fra i Comuni atellani e la città di Mantova, nel cui territorio è presente il comune Virgilio, già
2 Puntuali e preziose molte sue ricostruzioni storiche. Notevoli sono alcune righe da lui dedicate ai monaci della chiesa
di San Canione, pubblicate su una sua pagina sociale. Si richiama il suo testo nell’Appendice alla presente prefazione.…
3 Vedi, fra i suoi lavori: Francesco Bagno, medico e rivoluzionario. Un capitolo della rivoluzione napoletana del ‘99,
Valtrend, Napoli 2016.
4 Fiorenzo Marino, Il tenente e donna Filomena, Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2004.
5 Si tratta della famiglia degli eredi della mitica Nicolina, al cui nome epònimo, a circa trent’anni dalla morte, ancora
oggi si fa riferimento – con consuetudine linguistica tramandata – per indicare il suo negozio alimentare. Ognuno dice
«vado da Nicolina» per dire che va in quel negozio, anche se non ha mai saputo chi era Nicolina. Nicolina Pezzella,
originaria di Sant’Antimo, era nata il 20 novembre 1913; operosissima dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, è scomparsa
il 5 febbraio 1997. Ci sono persone laboriose e forti che lasciano tracce indelebili, e una ragione sempre c’è. Proprio
dirimpetto al negozio di Nicolina, negli anni della mia infanzia, c’era un altro negozio, che svolgeva la stessa attività
panificatrice, tenuta dalla signora Lucia (Ziello, sposata Salvato). Fra Nicolina e Lucia, pur concorrenti nella vendita,
esistevano rapporti di grande affetto. Personalmente ricordo le lacrime piante da Lucia, quasi disperate, il giorno in cui dové
trasferirsi, con la famiglia e con l’attività produttiva, in un altro Comune, a Frattamaggiore. Eppure quel Comune era molto
vicino. Quel pianto del distacco tra le due era la testimonianza vivente e sofferta di quanto l’amicizia fosse più grande della
concorrenza. Non so quanto queste cose siano comprensibili oggi, in un mondo tutto dominato dall’economia.
6 Degno di memoria speciale è un loro capostipite, Raffaele Arena, lavoratore infaticabile, quasi capace di lavorare 24
ore su 24, dipendente scolastico e panificatore. Amico carissimo di colui che qui scrive. Il suo forno era fonte preziosa di
pani, casatielli e pizze, luogo notturno di raccolta goliardica degli amici. Era, negli anni Settanta, padre di diciassette figli.
Per scherzo fra amici gli chiedevamo se la sera facesse l’appello.
Andes, patria del grande poeta latino. Raccogliendo le vestigia della tradizione è stata realizzata nel
2012 un’elegante narrazione a fumetti della più che bimillenaria storia atellana, riccamente
documentata, illustrata e curata7. Con questo spirito di custodia delle tracce, da tempo più gruppi di
associazioni benemerite hanno operato, scrivendo, promuovendo, raccogliendo, rimemorando,
reinterpretando.
Non c’è spazio, qui, per richiamarli tutti, e avremo altre occasioni per occuparcene, ma vorremmo
almeno ricordare, nel passato, la vecchia associazione A.C.A.P. (nata dalla fusione dell’A.C.A. e di una
Polisportiva), promossa da Francesco Ziello (detto “Cicciariello”), da Franco Pezone, da Peppino
Oliva, da Tonino D’Antonio, da Giovanni D’Elia, da Luigi Boerio (detto Gigino), dallo scrivente, da
Franco Del Monaco, da Gerardo Capriello, dal sempre simpatico Giuseppe D’Ambra (detto dagli amici
“Geppiniello”), dal già vispo e operoso Elpidio D’Antonio e, ancora, l’associazione “Atella club”, di
vasta ispirazione sociale e sportiva, fondata da Pasquale Dell’Aversana e animata, fra gli altri, da
Antonio Dell’Aversana, da Antonio Ferrante, da Alfredo Poderico, da Giuseppe Crispino, dallo stesso
autore del presente libro, Pasquale Cominale, da Mimì Falace (detto “Aglietiello”); il Gruppo cattolico
“Anni Settanta”, di ispirazione conciliare e post-conciliare (tra i fondatori e i componenti, Domenico
Costanzo, presidente dell’Azione Cattolica, lo scrivente, Umberto Cinquegrana, Orlando Limone,
Carlo Boerio, Elpidio Dell’Aversana, Carla e Antonietta Tanzillo, Anna Tizzano, Lia e Santina
Dell’Aversana, Lilina e Pina Esposito Ziello, Rosetta Cominale, Luigi e Tina Rocco [senior e junior],
Annetta Soreca, Lia e Franco Aimone, Peppino Lettera, Gianluigi Genovese, Franco Lettera, Ernesto
Di Mattia, Salvatore Pezzella, Rosaria Aletta, Nettina Del Monaco, Marisa Capasso, Marianna
Dell’Aversana, Antonietta Pennacchio), che si distinse anche per iniziative culturali e sociali, come una
Scuola popolare, cui parteciparono, insieme coi membri del gruppo, Elpidio D’Antonio, Saverio
Pezzella, Salvatore Pezzella, insegnante elementare, e tanti altri; il Gruppo di Base Atellano (G.B.A.),
con vocazione fortemente civile, proiettato sull’intero territorio atellano e oltre (tra i fondatori e i
militanti, lo scrivente, Orlando Limone, Umberto Cinquegrana, Sergio Sorrentino, Lia e Santina
Dell’Aversana, Pino e Carlo Di Serio, Lucio Falace, Luigi Rocco, Peppino e Carlo Boerio, Saverio
Pezzella, Rito Del Prete, Giovanni Catena, Angelo Origine, Giorgio Lavino, Antimo, Carlo e Angela
Iavarone, Pasquale Lettera [junior e senior], Nicola Atorino, Giovanni Serra, Nicola Verde, Raffaele
Cammisa, Anna Limone, Mario e Mena Cimmino, Salvatore Sapio, Fernando Falace, Aniello
Marroccella, Elpidio Di Monda, Massimo Andinolfi, Sofia e Carlo Di Serio, Elpidio Dell’Aversana
7 Giuseppe Dell’Aversana, Elpidio Iorio (a cura di), Da Atella a Sant’Arpino. Venticinque secoli di storia illustrata, con
disegni di Elpidio Cinquegrana, Guida, Napoli 2012. Si tratta di un libro che si è avvalso dell’opera di numerosi
[detto dagli amici “Pantera rosa”], Lella D’Elia, Maria Capone, Ubalda Tessitore, Nicola Alfiero,
Rosanna ed Elpidio Vita, Leo Belardo, Mario Belardo, Salvatore Perrotta [detto “Tato”], Raffaele
Arena, Nunzia Pedata, Linda Ponticiello, Antonio Cesaro, Titina D’Ambrosio, Gioacchino ed Eugenio
Legnante, Giuseppe Lettiero, Enzo e Tina Lettiero, Roberto Iavarone); il gruppo del Carnevale
atellano, animato da Umberto Del Monaco; il gruppo ARCI-UISP di Sant’Arpino, animato da
Emanuele Lettera e Pasquale Di Monda; il circolo “Irma Bandiera”, fondato da Olimpia Ammendola; il
Centro di Alternativa Verde, con impegno civile e ambientalista, al quale parteciparono, oltre a tante
persone già nominate, Roberto Iavarone, Franco Chirico, Mimì Costanzo, Nicola Terracciano, Lucio
Falace, Fernando Falace, Salvatore Sapio, Alfredo Sapio, Mimmo D’Ambra, Massimo Andinolfi,
Tonino Cicatiello, Ciccio e Clemente Oliva, Onofrio (per gli amici, Rio) e Amalia Lupoli, Sergio
D’Anna, Amedeo D’Anna, Antonio Pace, Pietro D’Alessandro, Giovanna e Rosaria Cinquegrana,
Giuseppe, Enzo e Tina Lettiero, Rosaria e Patrizia Dell’Aversana, Mariella e Tina Guida, Pino
Dell’Aversana, e tanti altri; il gruppo ARCI di Orta di Atella degli anni Settanta (fondato da Giorgio
Lavino, Giacinto Meta, Angelo Origine, Franco Pellino, Orazio Del Prete e altri), che si distinse per
molteplici iniziative e lotte civili. E ricordiamo, ai tempi d’oggi, l’associazione ADERULA di
Francesco Brancaccio e Giuseppe Benincasa; la ProLoco di Sant’Arpino, fondata da Felice D’Antonio,
dal sempre dinamico Cicciariello, da Gerardo Plazza, da Mario Rocco, da Mario Gabola, da Ettore
D’Errico, da Elpidio Di Serio (detto “o’ Russolillo”), da Giuseppe Dell’Aversana, da Elpidio Iorio e da
tanti altri, oggi presieduta da Aldo Pezzella; il gruppo “Contramunnezza”, fondato da Loredana De
Rosa. E ricordiamo ancora l’Archeoclub di Succivo, fondato da Giuseppe Petrocelli e diretto,
attualmente, da Antonio Tanzillo e, per quanto riguarda più specificamente Orta di Atella,
l’Associazione “G.O. – Giovani Ortesi” e il Centro “Massimo Stanzione – Convicinio”, costituito da un
gruppo di artisti che sviluppano numerose iniziative, avendo tra i fondatori Zaccaria Del Prete.
Innumerevoli, in questo territorio, i musicisti di talento. Ricordiamo, fra gli altri, Francesco Di
Cristofaro (leader del gruppo Brigan); i fratelli Carboni, figli del batterista Enzo Carboni: Andrea
(percussionista), Diego (tastierista e componente stabile del gruppo di Enzo Avitabile), Raffaele
(chitarrista, director presso l’Accademia musicale ALL MUSIC, fondata in Sant’Arpino insieme al
padre e ai fratelli); Pietro Plazza (contrabbassista, che ha fatto parte dell’orchestra che ha
accompagnato Renato Zero nella sua tournée italiana di qualche anno fa); Giuseppe Aversano
(chitarrista, fondatore, insegnante e direttore accademico della “Atellane Music Experience”, e
fondatore del Duo Chitarra Aversano Giuseppe-Ascione Rosario). E citeremo ancora – fra i cultori del
collaboratori artistici, fra cui Alessio D’Elia.
territorio, della letteratura e della storia – l’Associazione culturale “Amici del libro”, animata da
Assunta Rocco, Peppino Lettera, Olimpia Lettera, Luigi Bagno, Angela Perrotta in Cinquegrana, Maria
Cristina Aprea, Angelo Lettera; l’Associazione Culturale Sophia, diretta da Antonio Moccia e da
Enrica Romano; la Comunità di Vita Cristiana (C.V.X.), animata da Umberto Di Giorgio, da Giorgio
Catena e da Peppino Dell’Aversana (figlio del mio caro amico “Tettuccio”); il gruppo teatrale
“SudAtella”, coordinato da Susy Ronga; l’associazione “Casa nel sole”, presieduta da Giuseppe
Panella; il centro “Casa della vita”, diretto da Gennaro Capasso; l’associazione “Scusate il ritardo”,
presieduta da Raffaele Copertino, cui hanno concorso, fra gli altri, Giuseppe Di Liberto, Alessio
D’Elia, Luciano Catena, Francesca Liquori (in arte Anemone), Giuseppe Bagno, Raffaele Arena,
Andrea Mautone, Alessandra Dell’Aversana, Elpidio Ferrante, Francesco Cinquegrana, Marco
Palladino, Maria Cinquegrana; l’associazione “Opera di Padre Pio, Nostra Signora di Fatima”,
promossa dallo stesso autore del presente libro, Pasquale Cominale, con la partecipazione di tanti
amici, fra cui Olimpia Lettera, Raffaele Dell’Aversana, Franco D’Ambra (detto dagli amici “Baffone”),
Rosaria Compagnone (detta Sara), Luigi Bagno, Pasquale Pennacchio, Mario Merenda, Antonio
D’Errico, Anna Russo, Adriano Mondo; un gruppo amatoriale animato da Dino Arbolino; il centro
“Geofilos Atella”, presieduto da Antonio Pascale; più Associazioni culturali che si muovono intorno
alla “Casa delle Arti” e alla Biblioteca di Succivo, gruppi che, operando in armonia con gli stimoli e la
coordinazione di Salvatore D’angelo, presentano libri ed eventi d’arte, avvalendosi della
partecipazione, tra gli altri, di importanti attori e musicisti come Pio Del Prete, Gianni Aversano,
Antonio Belardo: si sta parlando dell’Associazione “Artenova Onlus” di Giuseppe Galdieri,
dell’Associazione “Arci Spaccio Culturale” di Mimmo Russo e Francesco Comune e dell’Associazione
“LiberaMente Onda”, gruppo femminile, di Beniamina Cariddi, Mariateresa Belardo, Valentina
Belardo. E citiamo, ancora, l’importante gruppo “PulciNellaMente”, Rassegna nazionale di
Teatro-Scuola, ideata e animata da Elpidio Iorio; e, con “PulciNellaMente”, ci piace qui ricordare, per
le sue connessioni col territorio atellano, la Scuola teatrale “Il Colibrì”, diretta da Antonio Iavazzo e
Carmela Barbato; inoltre, un gruppo itinerante animato da Carmela Bencivenga che, in nome della
poesia, svolge, insieme con Olimpia Ammendola e altri appassionati, periodici incontri sui poeti in
corrispondenza con gli anniversari delle loro date di nascita; e, ancora, la figura e l’opera di Giovanni
Sorvillo, appassionato sassofonista, sensibile e creativo compositore, originario di Orta di Atella. E
vanno sottolineate, in questa filiera di idee e di sensibilità, le azioni teatrali – con personificazioni di
Pulcinella e di molteplici figure della tradizione – messe in scena dall’appassionato e poliedrico Gianni
Aversano e le video-favole inventate e realizzate – grazie a un’intensa fantasia – con figure della storia
atellana da Salvatore Di Leva. Né vanno trascurate, in un tale contesto, le sculture delle maschere
atellane realizzate da Roberto Di Carlo e le pitture e le opere di Tommaso Cominale, da sempre dedito
alle cose d’arte (molto significatica una sua ricostruzione pittorica degli scavi archeologici effettuati nel
1966 nel territorio santarpinese e atellano). Intensa e partecipata è oggi l’azione svolta dal gruppo
“Loggiato al Limone”, attivo su argomenti di dibattito pubblico, fondato da Orlando Limone, con la
collaborazione di Olimpia Ammendola, di Salvatore D’Angelo, di Alex Daguerre, di Antimo Perfetto,
di Mena Puca, di Santolo Lettera, di Antonio Capasso, di Raffaella Limone, di Luciano Catena, di
Giuseppe Del Vecchio, di Raffaele Cammisa, di Gisella D’Anna, di Alessio D’Elia, di Maria Pia De
Martino, di Rosanna Magarò, di Loredana De Rosa, di Oreste Plazza, di Raffaele Pennacchio, di
Alfredo Dell’Aversana, di Nicola Verde, di Nicola Alfiero, di Nobile Andinolfi, di Ernesto Di Serio, di
Manuela Plazza, di Marco Palasciano (fondatore e animatore della capuana Accademia Palasciania), e
di tanti altri. Molto ragguardevoli sono state, ieri e oggi, le Mostre – realizzate a Succivo e a
Sant’Arpino – sugli antichi strumenti contadini, sugli abiti d’epoca, sui palazzi a corte; e molto
indovinata ed efficace è, oggi, l’opera di raccolta di antiche foto, compiuta online nella rubrica
“Sant’Arpino Memories” da Michele Savoia, con la quale si diffondono fra le nuove generazioni la
conoscenza e la visione dei luoghi – le strade, le campagne, le piazze – come erano una volta. Tu
affondi in una foto lo sguardo e ne riemerge vivo e fresco il passato. Intanto, si apre nella comunità una
vera e propria “caccia al tesoro” per scoprire – nei volti di bambini e scolari del passato – gli adulti, i
genitori e i nonni di oggi: un tuffo nell’argento vivo per trarne in salvo ricordi. Una pesca d’anime. Un
cannocchiale puntato su un passato chiamato a riemergere nel qui. Discorso a parte meriterebbe, ma
andrebbe ben oltre i limiti del presente spazio, il lavoro letterario dello scrittore Giuseppe Montesano,
che ha scavato, con ardore metafisico, nell’anima delle cose, nella carne dei poeti, nel ventre delle
parole e nelle interiora di Napoli.
Non puri nomi: tante persone, tante tracce di umani esistenti ed esistiti, tutti costituenti un’unica –
mai interrotta, eppur aperta – corona. Una tradizione può diventare, così, una comunità senza tempo,
cioè una comunità cronotopica. Non periferica, ma identitaria e specifica in un concerto globale nel
quale agisce in modo non locale, ma glocale. L’intero territorio atellano vive – e da tempo – di una
fioritura di iniziative benemerite, consapevoli e vivaci, che ne fanno la ricchezza culturale di ieri e di
oggi e la proiezione nel futuro8. Vere forme di cittadinanza attiva. Qui, un pezzetto di mondo riesce a
8 Chiediamo fortemente scusa a tutti coloro che non sono nel presente testo citati. Questa prefazione non intendeva
essere, a nessun titolo, una storia di Atella; e, se abbiamo citato tanti nomi, l’abbiamo fatto solo per dare il senso di un
respiro comunitario, molto variegato, che ha accompagnato la sua tradizione. In questo senso, né qui si intende istituire una
differenza comparativa fra le persone citate, né si vuole sottintendere una minore importanza dei non citati. Potrebbe anche
diventare, in molteplici sensi, un ologramma del mondo. Ciò che appare caratteristico della – invisibile
ma reale – “Città atellana” è un inedito intreccio storico-culturale di sensibilità religiose, teatrali e
civili, perfino culinarie, che ne fanno un impasto originale di culture mai perdute.
Né va dimenticata, nel territorio atellano, la presenza di numerosi gruppi di preghiera. La tradizione
popolare racconta che nel luglio 1809 un uomo paralitico, Carmine Tanzillo, mentre percorreva la
campagna atellana, sentendosi in pericolo per alcuni buoi che gli correvano incontro, invocò
sant’Elpidio, che dal folto della canapa gli apparve in visione e, dicendogli «Surge et ambula» («Alzati
e cammina»), miracolosamente lo guarì. Dall’episodio fu tratto uno spettacolo teatrale, “Il miracolo di
sant’Elpidio”, che ebbe negli anni Cinquanta per promotore don Eugenio Bencivenga, insieme con
Carlino Del Prete e la sua famiglia, tornati dagli Stati Uniti d’America, ed ebbe – fra gli attori –
Ciccillo Cominale e Giovanni Iorio, oggi lucidissimo ottuagenario raccontatore, dalla memoria
straordinaria e profonda. Molto forte è stata, in Sant’Arpino, la devozione a sant’Elpidio. Ho visto, per
esperienza diretta e ancora a me presente, tante persone in lacrime nel momento topico in cui la statua
del santo veniva riportata nella sua tradizionale custodia cittadina. E molto forte – e da tempo
immemorabile – è stata, in questa terra, la cura devozionale ai cimiteri e al culto dei morti (antica
sensibilità etrusca? antica sensibilità osca? antica sensibilità contadina? E ci preme pensare, intanto, a
un luminoso esempio: alla tenera e proverbiale attenzione per il culto dei morti profusa dal compianto
Antonio Dell’Aversana, padre e marito amoroso, macchinista ferroviere appassionato, sensibile alle
memorie, alle creature arboree, alle essenze aromatiche e ai fiori); e molto forte è, da sempre, la
sensibilità a varie forme teatrali e musicali (la maschera di Maccus è considerata progenitrice di
Pulcinella; il Carnevale ha una sua propria declinazione atellana, lo spettacolo della Zeza pure).
sostenersi, in altra prospettiva, che i non citati sono più importanti dei citati, per quanto nella storia del mondo ogni discorso
sull’importanza possa avere molteplici, e non sempre consonanti, declinazioni. In altra sede potrà farsi una più compiuta – o
una meno incompiuta – storia, e si farà. Ma qui una prefazione, pur scontando il peso, e quasi il peccato, di una così lunga
elencazione, voleva solo dare – attraverso le sue enumerationes – la percezione di quanto sia stato e sia corale e partecipato
il respiro di una terra dal sapore antico. Consapevolmente non abbiamo parlato, perciò, di innumerevoli battaglie politiche e
sociali, anche molto dure, né abbiamo raccontato dei movimenti di lotta per il lavoro, di lotta per la casa, di lotta per la
copertura e il disinquinamento dell’alveo Fondina, vera e propria fogna a cielo aperto, scaricatoio dei liquami di Napoli (per
il cui risanamento, in seguito alla lotta, fu stralciata una parte del progetto per il disinquinamento del golfo di Napoli); né
abbiamo parlato dei movimenti di opinione per i diritti civili; né abbiamo detto dei tanti giornali e giornalini che hanno
operato per decenni nel territorio. Iniziativa meritoria, fra l’altro, fu la diffusione militante, ad opera del Gruppo cattolico,
del “Quotidiano Donna”, proprio allora apparso sul piano nazionale. Cogliamo l’occasione, intanto, per esprimere il nostro
ringraziamento a coloro che ci hanno inviato una parte della documentazione in loro possesso, qualche volta accompagnata
da precise testimonianze: Pasquale Dell’Aversana, Antonio Memoli, Elpidio D’Anna, Vito Aversano, Giorgio Lavino,
Salvatore D’Angelo, Giuseppe Mitrano, Stefano Di Foggia, Fabiola Perrotta, Sergio D’Anna, Luca Dell’Aversana, Geppino
D’Ambra, Elpidio D’Antonio, Pasquale Cominale, Elpidio Iorio, Gennaro Falace, Saverio Pezzella, Giovanni Iorio, il quale
ultimo è stato fonte di ricordi molto antichi, circostanziati e preziosi, vera miniera di memorie, dal quale ci sarà ancora
molto da attingere.
Si tratta di forme a cui si accompagna il senso di comuni valori laici e civili, eppure non disgiunte da
ben caratterizzate tradizioni culinarie (ad esempio quelle, ben radicate, del “casatiello”, della pizza e
del “gattò”, beninteso in versione atellana, come testimoniano le periodiche sagre territoriali).
Ciò nonostante, questa sommersa identità sembra a volte solo quiescente, quasi in attesa di essere
resuscitata. I numerosi centri di incontro – oggi pandemia permettendo – sembrano coltivare, in questo
senso, una segreta funzione di pungolo rivelatore, capace di riattivare riflessi antropologici – quasi
istintuali – di carattere recessivo. Una terra può ben sembrare, all’apparenza, disomogenea, fin quando
una mano segreta non compia il gesto di tirare una trama di fili invisibili che ne mostrino alla luce
l’unità.
Pasquale Cominale si cimenta, perciò, in forma narrativa con una storia e con un mito. Egli affronta
un itinerario che è, al tempo stesso, una tradizione, un laboratorio e un mistero. Non inventa: scopre
nell’accaduto il possibile. Non fantastica: cerca nei vissuti degli umani presenti le orme che vi furono
lasciate. Non si isola dal mondo: segue, contorna e ritaglia le sue figure all’interno di fatti storici
rigorosamente documentabili (perfino con testamenti e contratti). Questa storia non si sarebbe potuta
scrivere se non si fossero interrogati, al tempo stesso, avvenimenti di ieri, vissuti di oggi, cumuli di
documenti e ricerche, un lontanissimo mito, tante credenze, un antico e umile cuore. Tutta la sequenza
dei fatti raccontati diventa, così, nelle mani dell’Autore, un impasto soffice e leggero come un pan di
Spagna: proprio come quel “pan di Spagna” che torna – come elemento immaginario e attrattore – a far
da lievito alle conversazioni fra il Tenente e Filomena. Ciò che il pandispagna è per le persone in scena,
ossia rimedio alla sofferenza e toccasana per la vita, è – per l’Autore – il piacere stilistico e narrativo
con cui egli alimenta e si fa alimentare dalle anime evocate. La scrittura, come un cibo malleabile e
compiacente, può essere invisibile e inconfessata terapia, e contemporaneamente autoterapia.
Con pochi colpi di scalpello, così, dal marmo dei fatti emergono interiorità. Giuseppe Macrì e
Filomena del Tenente sporgono dal passato, accampandosi fra noi e chiedendoci complicità. Le loro
conversazioni si intrecciano, il loro mondo si anima, tralucono da un fondo oscuro le loro piccole vite.
Parlano a noi, presentandosi come interiorità mai trapassate. Sono due personaggi in cerca d’autore;
anzi meglio: due persone che si sforzano di esistere ancora fra noi.
Vari piani emergono dal gioco della tessitura. Quello biografico di due esistenze, incontratesi, in una
felice simbiosi, per caso; quello storico di vicende nazionali e locali; quello economico di lavorazioni
antiche; quello civile di memorie e di lotte che lasciarono tracce nel presente. Tra questi piani l’Autore
si muove con invisibile maestria e agilità. Lo stile è descrittivo, sorvegliato, rallentato, gustato.
L’Autore, Pasquale Cominale, lavora le pagine con la pazienza mistica di chi pesca o ricama,
calibrando il perimetro d’azione, il gesto, il canone, la trama e l’ordito.
La semplicità delle forme non inganni, però. Essa è densa di storia e di storie, nominate dal cuore
che vi ha curiosato e girovagato. Si tratta di un racconto da leggere in trasparenza, per coglierne le
molteplici trame. Atella e Messina – Napoli e la «tremante Trinacria» – si abbracciano, come in un
riscontro gemellare, da lontano; una religiosità antica, tessuta con le fibre di una lettera della Madonna,
fa da sottotesto a un’edicola devozionale ancora presente a Sant’Arpino, in via Piave, edicola che va ad
aggiungersi alle tante altre cappelline e figure devozionali sparse nelle strade e nelle campagne
atellane. La tradizione racconta che, intorno all’anno 42 dopo Cristo, essendosi i messinesi convertiti al
cristianesimo a opera di san Paolo e avendo essi inviato una delegazione e spedito una lettera alla
Madonna, questa rispose loro con una sua lettera, di cui si conservano a Messina alcune vestigia. Di
una tale vicenda Giuseppe Macrì, messinese, si fece portatore anche nei luoghi atellani. È la pia
tradizione della “Madonna della Lettera”. Per una strana sincronia, su cui ci sarebbe forse da
domandarsi, il cognome “Lettera” è nel territorio santarpinese e atellano uno dei più diffusi, se non il
più diffuso in assoluto, comune – per giunta – a persone non imparentate fra loro, il che sembra
indicare la longitudinale profondità di una radice. In questo racconto, molteplici strati dell’antica Atella
emergono, così, a un’inedita luce.
Lo sfondo umano non è apologetico, però: ci vengono incontro, qua e là, antiche abitudini e vizi
inveterati; e, intanto, a tutto soggiace un groviglio di discendenze familiari, che sono arrivate fin qui,
fino a noi.
Scorrono lungo le pagine eventi del Risorgimento, della fine Ottocento, della prima guerra
mondiale; stratificati riti contadini, la lavorazione della canapa, antichi sentieri di campagna. Spuntano,
nella vicenda, capostipiti familiari (contraddistinti dai loro cognomi e soprannomi), benemerite figure
di maestri e, fra gli altri, Filippo Saporito, il grande psichiatra aversano. L’intero tessuto narrativo
sembra dire, sottotraccia, che a un’unica storia appartengono tutte le persone, con pari dignità, a
qualunque scala – di successo o di notorietà – si siano collocate.
Le cornici ambientali e le tradizioni sono accuratamente disegnate; i gesti, consuetudinari e sagaci;
le conversazioni, mai scontate, a volte icastiche e argute. Pasquale Cominale mostra, nel suo gioco
narrativo, meticolosa e vigile passione. Non semplicemente applica le sue conoscenze al testo che
scrive, ma indossa il tempo storico in cui si cala e su cui racconta; e intanto, pur descrivendone le
fratture e i mali, delinea le proprie figure con tenerezza e pietà, mentre sotto le loro sembianze scorrono
le ordinarie difficoltà del mondo umano: l’attenzione agli umili, la vita quotidiana, il soccorso ai
poveri, i tempi della sorte e della solidarietà.
Di tutto ciò sono stati centri focali e teatro un antico palazzo, quello ducale, e la piazza antistante,
con la sua chiesa e il suo sagrato, già piano rialzato e recintato da cordoni d’acciaio, intorno ai quali
cicalavano e facevano capriole pericolose i bambini di allora. Sono edifici quasi richiamati a distanza –
nella cornice delle ultime campagne – da residui resti romani e dalla monumentale chiesa di san
Francesco di Paola al cimitero, con l’annesso orto di piante antichissime e con l’adiacente convento,
ormai deserto.
Ma questa piazza, lungo i secoli, non è stata solo piazza geografica. Ѐ stata piazza teatrale: e teatrale
tutti i giorni, indipendentemente dai tempi e dagli spazi di un teatro chiuso. Per questa piazza sono
passati uomini dediti a narrazioni, raccontatori di parabole e favole, persone curiose, attente alle
caratteristiche e ai difetti degli altri, singolarmente oscillanti tra gli sberleffi e la solidarietà.
Emblematico, in questo contesto, è stato sempre il momento in cui passava qualche persona un po’
malandata o bizzarra, o anomala, o caratteriale, o minorata. Si è celebrato tante volte, in questi
momenti, un improvvisato rito amebèo, fatto di botte e risposte, materiato in battute sagaci e salaci. Qui
è accaduto, talvolta, che il gioco si facesse pesante e impiegasse gli insulti come forme, più che
comunicative, quasi iugulatorie, trangolatorie: immolatrici. Qui l’attenzione collettiva, concentrandosi
sul più bisognoso o sul debole, ha celebrato un antico rito sacrale e sacrificale, per quanto velato dal
gioco, rito fatto di cattiveria e pietà. Come accade quando ci si diverte con una mosca catturata sotto un
bicchiere. Ѐ – in questo spettacolo – come se nella psiche degli astanti la pietà volesse evitare di
sentirsi sdolcinata, alimentandosi a energie adrenaliniche oscure, e come se la cattiveria volesse
segretamente chiedere a sé stessa perdono attraverso un esercizio di pietà. Ciò, in una cerimonia d’ira
segreta e coatta, in una broda di acredini covate, in un sacramento di divertimento e di odio, in un
matrimonio di vendetta e viltà. Qui è potuto accadere, addirittura, che lo stesso immolato partecipasse
attivamente al gioco della sua immolazione, offrendosi a un divertito martirio come a un pasto
collettivo o reagendo con una strana complicità, nuovo carburante a quel fuoco e a quel pasto.
L’insultato diventava, così, complice del suo insultatore. Si è consuetudinariamente sviluppato, in
questa cornice, un rito di condivisa contro-dipendenza fantasmatica verso il debole, in cui l’agnello
sacrificale efficacemente contribuiva al consumarsi del gioco. Per queste rappresentazioni di piazza
sono passati personaggi dai soprannomi strani, come il Bue, Mattafone, Mimì lo scemo, Pierino il
piccoletto, Minichina l’affascinante, Nanninella la pazza e tanti altri poveri malcapitati, segnati dalla
sorte. Un rodeo di lazzi ha fatto corona, così, intorno a persone sentite come pupazzi, se non come
cumuli semoventi di stracci. Un banco di divertiti accusanti – davanti a un capro espiatorio accusato – è
diventato il banchetto di un branco. Qui non è stato il teatro a farsi vita, ma la vita a farsi teatro. Qui si
è toccata l’ambivalenza fra la curiosità e la solidarietà, fra il vivere e il raccontare, fra il dolore e la
gioia, fra la vita e la morte, fra la simulazione e la verità. Qui, sotto la forma del fingere, si finge di
fingere, per far emergere in trovate pirotecniche insulti di verità. In tutti, nel corso della vita, possono
covare e accumularsi ire segrete e frustrazioni, canalizzabili in ogni direzione, come in un delta di
derive; e ogni ira, arrestata nel suo sviluppo, diventa odio; e l’ira e l’odio hanno bisogno di vittime, e il
senso di colpa ha bisogno di renderle sacre, e un’ansia oscura di divertimento e catarsi ha bisogno di
farne spettacolo, coinvolgimento, con passione e ilarità. Vive, da sempre, nelle interiora degli uomini
un male gratuito, oscuro e radicale, un mysterium iniquitatis che, a volte, sembra confessarsi,
alleggerirsi e riscattarsi in forme di spettacolarità. Qui, un delirio di innocenza appare divampare da
un’oscura angoscia di colpa e da un rancore antico e radicale, perfino inconsapevole di sé. Sono spazi e
momenti di un inconscio collettivo snudato a cielo aperto. Anche di questi spazi e momenti fu fatta la
tradizione teatrale atellana. Anche di questi spazi e momenti fu fatta la consuetudine di prendere a
bersaglio la magrissima, pallida e sparuta Filomena, deridendola e chiamandola, con una corrosiva
canzoncina, “Filomena ’a morta”.
Il Carnevale, come si sa, è gioco di teatro e di vite, di maschere e di vissuti profondi, di
rovesciamenti di ruoli e di sregolatezze liberate. Sottotraccia è mimetizzato un inquietante rapporto col
potere e con la morte. Il potere gerarchizza, creando sopraffazione e rancore; la morte eguaglia,
creando paura e disperazione. Il Carnevale è un urlo anti-gerarchico, che però, contemporaneamente,
ha paura anche dell’antigerarchica morte. E si rivolta, perciò, al tempo stesso, contro il potere e contro
la morte. Chiamando a raccolta – in un urlo – tutte le forze delle frustrazioni contro il potere e tutte le
forze del dolore contro la morte. Ma questo urlo può essere pubblico – comunitario – solo a condizione
di celare la sua origine, che resta segreta. La rivolta contro il potere viene esorcizzata riducendo i
potenti a pupazzi e demistificando la boria di tante “Dichiarazioni solenni” in una guazza di corbellerie
teatralizzate. E intanto, per altro verso, la paura della morte viene esorcizzata e ingozzata dal cibo, i
sensi di frustrazione dalle sceneggiate e dal grido, le occasioni del presente da riduzioni di fatti e
personaggi a caricature in stile bonsai, le ansie profonde da sganasciate e sganascianti ilarità. L’essere
umano si distingue da qualsiasi animale non solo perché ha autocoscienza, ma perché ride e finge, e
forse ride proprio perché, mentre vede fingere, finge.
Ma vive anche – sottotraccia – un carnevale del dolore, quando falliscono nel loro fine le cerimonie
apotropaiche del colore. Quando si finge e quando si finge di fingere, tutto è finto, eppure tutto è vero.
Ma esiste, in realtà, un limite alla stessa finzione, sia nel teatro che si fa vita, sia nella vita che si fa
teatro, sia nel fingere che nel fingere di fingere. È quando la realtà, o una più potente realtà, irrompe
sulla scena, sfondando la cartapesta della finzione e facendola crollare al grado zero. È quando il teatro
va veramente in fiamme, è quando il recitante è devastato – nella sua vera e unica vita – da un
indomabile dolore, è quando l’attore sul palcoscenico muore. Chi è travolto da una sciagura non finge;
chi terribilmente soffre non finge; chi è morto non finge. Entra in scena, qui, un altro attore: il dolore,
quello ultimo e radicale. Qui viene demistificata a crudo quella menzogna che, vestendosi di abiti
culturali, mira a confondere tra loro la bugia e la verità. Ci si può illudere su tutto, non sul proprio
dolore. Esso ha un’autorità invincibile e povera, che è verità. È verità perché non ha bisogno, per essere
vera, di una corrispondenza tra un’affermazione e uno stato di cose. La verità di un dolore non dipende
da una corrispondenza con qualcosa: è verità in sé. In questo senso, il dolore è nucleo di verità,
irriducibile in assoluto. La terra atellana – che pur non è stata mai fisicamente violenta –
profondamente sa di questo gioco fra l’illusione e la verità. Essa è, nel bene e nel male, terra di
maschere e del loro teatro e, insieme, dei significati abissali che in queste maschere e in questo teatro
lavorano. Questa terra, pur non violenta, è caratterizzata dal sale, dal sangue, dal verde, dai motteggi,
dalle mordacie, da laboriosità artigianali, da generosità segrete, da gusti piccanti, da premure religiose,
da ardimenti civili, da lettere e arti, da talenti, da fantasie innovative, da invenzioni di prossimità. Qui si
solfeggia la vita come zucchero filato. Ciò, nel bene e nel male. Pasquale Cominale lo sa.
Questo racconto del nostro Autore, entrando nel dolore di Filomena, lo vela con la tenerezza della
compassione e con la sapienza della fragilità. Come ultimo atto d’amore in memoria di un dolore
perenne e indifeso.
E mi tornano ora nella mente, dagli anfratti della memoria, altri antichi riti teatrali, a carattere
vivacemente amebèo, cioè fondato sugli scambi di domande e risposte, anzi, di attacchi e contrattacchi.
Li ho sperimentati, da bambino, proprio io. Due donne, affacciandosi alternativamente alle loro
finestre, si insultano. Appaiono chiarissimi, qui, sia l’intento del duello dissacratorio che la sfida
teatrale. Come in un confronto rusticano, dove operano non i pugnali, ma le parole; dove scorre non il
sangue, ma lo sverginamento dell’onore. L’una offende l’altra: non in modo qualsiasi, però, perché
contano soprattutto la spettacolarità del confronto e la ricchezza delle metafore oltraggiose, sfoderate
non solo per sferrare argomenti, ma per accreditare la forza creativa di chi l’invoca. Un discreto
pubblico, nascosto dietro le tende socchiuse, un po’ apprende e un po’ gode, esercitando curiosità,
scandalizzato stupore, soddisfazione e pietà. E possono tornare alla memoria, fra i tanti ricordi, le
canzoncine ritmate con cui ragazzini della scuola elementare si prendevano gioco di una loro maestra,
la signorina Gatta, pittorescamente derisa perché, secondo la loro invenzione dissacratoria, di lei
sarebbe stato innamorato Mattafone. Tutti episodi di contumelie e di lazzi, consumati all’unico scopo di
divertirsi e divertire. I codazzi di ragazzi insultanti che accompagnavano la magra Filomena, forse,
contendendosi le battute fra loro, sprigionavano, anch’essi, il rito di questa teatralità.
Chi leggerà questo libro di Pasquale Cominale, quando percorrerà il borgo santarpinese, non vedrà
più la stessa cosa di prima. Camminando per le strade, navigherà un lago trasparente, dal cui fondo
arrivano in superficie storie, persone e campagne perdute. Camminerà sulle acque di un Mediterraneo
di memorie, tutte in superficie risorte. Vivrà, come in uno specchio, più itinerari in uno solo.
Balzeranno al suo sguardo figure, campagne e situazioni, come al tocco di una resuscitante
arci-vernice. Quella di Paperino, la ricordate?
Questo racconto di Pasquale Cominale è un resoconto, una testimonianza, una invenzione e una
confessione. Un atto di fede nei propri nipoti e nelle generazioni future. Ricostruisce le linee
genealogiche di famiglie antiche e presenti. Unisce i figli ai nonni, le persone di oggi ai loro capostipiti.
Sembra invitare tutti a una ricostruzione – complessa e a più mani – di un albero genealogico collettivo,
da condividere insieme, misurato sulla scala dei secoli e abitato da persone esistite e reali. Questo
racconto fa il punto in una navigazione che percorre il passato. Fa sentire sottotraccia il pathos della
storia, dei costumi, delle fatiche, delle colpe e degli ideali.
Si tratta di un libro che, nato da un’antica e nascosta passione dell’Autore per la scrittura e da una
meritoria sollecitazione a lui rivolta da Elpidio D’Antonio, colma un vuoto e riporta in vita figure.
Sotto la mano sapiente dello scrittore, da un soffio risorgono anime passate. Grazie alle suggestioni del
racconto, Atella viene evocata come un fiore purpureo in un mondo globale, che intreccia legami fra la
terra di Messina e quella di Mantova, patria virgiliana, fra i cristiani del Nord-Africa e le figure della
Terra Santa.
Un monito sotterraneo sembra percorrere l’intera narrazione: risuonando attraverso le parole dello
stesso protagonista, il Macrì. Egli aveva più volte detto e scritto (il Palazzo ducale è seminato di
epigrafi e incisioni): «Nessuna azione sia compiuta senza la ragione; nessun comportamento sia tenuto
senza la carità». La ragione genera ricerche, scoperte e artifici, che possono portare al genere umano
tanti benefici, ma intanto la carità non può aspettare. Essa deve sempre operare qui e ora, né può
diventare un semplice prodotto meccanico, irresponsabile, indifferente, sordo, automatico. Lungo la
trama del racconto una voce pronostica, a un certo punto, che un giorno potrà nascere una fibra tessile,
di origine sintetica, che sostituirà la canapa. Molte cose, allora, nelle esistenze degli uomini reali
cambieranno, eppure il mondo della vita resterà sempre uguale, con i suoi problemi di lavoro, di
bisogni, di soccorsi e di amore.
La ragione, con le sue scoperte e invenzioni, potrà cambiare tutte le condizioni del mondo, ma non
cambierà il mondo. Ogni artificio, illudendosi di cambiare la realtà, è necessariamente e
inconsapevolmente sottomesso alle leggi della realtà di cui si avvale. Una sapienza antica delle cose ci
guarda dal futuro: il progresso tecnico crescerà, ma continuerà a restare decisiva la carità. Mai potranno
salvarci, perciò, né i prodotti di plastica, né un’intelligenza di plastica.
Torniamo alla nostra originaria domanda sull’arte e sulla storia, ossia sul possibile e sull’accaduto. Il
Romanticismo creò, come è noto, il romanzo storico, nel quale l’artista scrutava nell’accaduto il
possibile; e Benedetto Croce, come è altrettanto noto, ribaltò il tradizionale rapporto aristotelico fra
l’arte e la storia, iscrivendo la storia sotto la categoria speculativa dell’arte. Ciò vale, però, anche
all’inverso: ossia quando alcune scritture d’arte si avventurano nei tracciati della storia. Uno scrittore è,
se ha talento e passione, un mito-veggente e un mito-poieta. Tramuta un accaduto in un possibile e un
possibile in un visionario futuro. Si noti. Cinque cose trasformano un segno in un simbolo e un
racconto in un mito: una forza, una forma, un significato a più strati, un qui e ora e una durata. Cioè:
una stratificazione di piani semantici, operanti qui e ora, in risonanza fra loro, in una vertigine di echi,
che durano come nel suono di un gong. Ne nasce un concentrato energetico, un evento, come accade
nel fischio del racconto di Luigi Pirandello Il treno ha fischiato e come accade nello “schiaffo” sferrato
– in punto di morte – dal padre al figlio Zeno nel celebre romanzo di Italo Svevo. Così avviene, ancora,
in un romanzo di Umberto Eco, là dove il nome della rosa è – nella carne di un unico evento – più cose:
un nome, una rosa, tutti i significati di una rosa, i significati di tutte le rose, un corpo leggiadro, un
segreto magnetico e profondo, una forza ipnotica, un vortice intenso in cui si è risucchiati e si vive. Per
cogliere la stratificazione di tutti gli eventi profondi che accadono in un simbolo, si pensi soltanto a ciò
che un singolo e una comunità sentono, in una cerimonia solenne, al suono dell’inno nazionale. In
questo senso, un mito è la forma narrativa di un simbolo e un simbolo la forma iconica di un mito.
Potrebbe dirsi che, come una massa fisica può trasformarsi in energia (cinetica e/o di posizione), così
una massa ideo-affettiva può trasformarsi in energia catturante e generatrice, facendosi simbolo o mito.
Dentro ogni storia vivono miti. La storia non solo racconta un accaduto, ma lo nasconde; un mito non
solo presenta un accaduto, ma custodisce un possibile sottaciuto e velato. In quel possibile brilla,
segretamente tracimando, un futuro. Quando uno scrittore si avventura nei territori della storia o del
mito, entra in contatto con la falda di una fantasia originaria, sua e condivisa, che può trasformare un
mito in una storia e una storia in un mito. Egli, perciò, legge in un accaduto il possibile e in un possibile
un accaduto. Avviene, così, che una storia non solo racconti, ma riveli un possibile celato; e accade che
un mito non solo racconti, ma sveli il non ancora accaduto.
Come è noto, per Walter Benjamin la storia non è un tempo omogeneo e vuoto. Come lui ben
sapeva, in quel “possibile” può essere in preparazione un futuro, seppur con molti secoli di anticipo.
Quel possibile è un arco teso che, celato, aspettando le condizioni di un tempo venturo e maturo, buca
un punto dell’avvenire, irrompendo da un varco alla luce. Così come la storia può essere un «balzo di
tigre nel passato», allo stesso modo una forza antichissima può essere un balzo di tigre nell’adesso.
Una metamorfosi sta accadendo, a questo punto, sotto i nostri occhi. La storia non è solo ciò che i
documenti ci dicono, ma anche ciò di cui non c’è documentazione; e, d’altra parte, il mito non rivela
solo ciò che è accaduto, ma – al tempo stesso – ciò che accadrà, o potrà accadere. Il possibile buca la
trama, una fantasia lo soccorre. La storia narra, il mito dà forza. La storia descrive, il mito apre
orizzonti di fuga. Sotto la camicia dei fatti, piccoli e grandi, una struttura respira. La scrittura – lo
sappia o non lo sappia – è un atto di fede. Chi scrive crede; chi crede crea; chi crea prolunga la vita e
vedrà. La storia, come un vento di bora, sconvolge; il mito, come un vento di tramontana, accende i
profili e i colori. La storia travolge, il mito governa. Il possibile conserva, l’accaduto rivela. La storia
mostra, il mito nasconde. Una storia spalanca percorsi, il mito illuminerà.
4) UN AFFONDO NELLA RIVOLUZIONE NAPOLETANA DEL 1799
In questo scritto Pasquale Cominale si cimenta – attraverso la consueta capacità stilistica e scenica –
con un’antica vicenda, sempre viva nella coscienza di Napoli e dei napoletani: la rivoluzione del 1799.
Fu quella in cui venne sterminata, con inaudita ferocia, una vera e propria comunità di intellettuali,
primissimi in Europa.
Il nostro autore, come sempre fa quando affronta la rappresentazione di figure storiche, non si limita
al puro circuito degli avvenimenti conosciuti, ma – con intenso e consapevole impegno fantastico –
scava negli avvenimenti passati per estrarne il possibile celato. Dentro la scienza della storia egli cerca
altro, interrogando la sua anima di palombaro.
Nelle scene, accuratamente ricostruite, le figure di quel tempo si muovono come a noi
contemporanee: Eleonora Pimentel Fonseca, Domenico Cirillo, Mario Pagano, Antonio Della Rossa, la
regina Carolina, il re Ferdinando di Borbone, e tante altre. Dentro le righe scorrono tutti i pensieri –
riflessi e irriflessi – del narratore, il quale sembra muovere, nel suo sforzo rappresentativo, da una
duplice prospettiva, che è anche una duplice domanda: che cosa la storia conosciuta non ci dice? Che
cosa la storia conosciuta, pur dicendoci, sotto le azioni dei suoi personaggi nasconde?
In realtà, ogni storia, in quanto è scientificamente ricostruita a partire dai suoi documenti,
certamente manca di tutto ciò di cui non si trovano documenti, e meno che mai possono trovarsi
documenti di ciò che è accaduto nell’interiorità dei personaggi che gli storici cercano di interrogare. In
questo senso, ogni rappresentazione storica siede su due falle, che mai potranno essere colmate:
l’impossibilità di trovare tutti i documenti possibili e l’impossibilità di scendere nell’interiorità dei
personaggi.
Pasquale Cominale lo sa, e impiega appunto questa debolezza strutturale della storia come tunnel
per poter entrare nello spirito di ciò a cui chiede di venire alla luce.
In questo orizzonte di quesiti, sotto la tessitura della narrazione segretamente emergono – sempre –
alcune domande, che costituiscono la molla potente da cui la fantasia dello scrittore muove: è possibile
immaginare l’esistenza di rapporti che, pur autentici, furono spezzati dal precipitare degli eventi? È
possibile immaginare che sotto la superficie degli eventi accaduti siano rimasti in ombra altri possibili
eventi che sarebbero potuti accadere al loro posto? E ancora: è proprio vero che la storia non si fa con i
“se” e con i “ma”? Non è forse vero, piuttosto, che proprio la storia, quando opera attraverso i concetti
di “cause” e di “effetti”, lavora pur sempre con i “se” e con i “ma” che crede di avere
programmaticamente respinto? In altri termini: non è forse vero che, quando gli storici parlano di
“cause”, stanno pur sempre sottintendendo che, se non fosse accaduta quella certa cosa, ci sarebbero
stati altri “effetti”? In questo senso, non è forse vero che gli storici, quando parlano in termini di
“cause”, stanno anch’essi nascondendo i propri “se” e i propri “ma”?
Pasquale Cominale è consapevole di questa debolezza strutturale della storia, e trae proprio da
questa debolezza la sua forza di narratore.
Ciò non significa, però, che il nostro autore “inventi”. Significa soltanto che egli, essendosi immerso
fino in fondo nel fiume degli eventi, non solo li “indossa”, come storia propria, ma cerca di immaginare
ciò che negli esseri umani e in ogni contesto narrativo sempre si nasconde, più reale che mai. Del resto,
la stessa concezione di Benedetto Croce, per la quale la storia andava collocata sotto la categoria
speculativa dell’arte, sapeva di aprire potentemente uno spazio specifico – quello dell’interiorità, ossia
dello “spirito” – a ogni scrittore che della storia volesse parlare con verità.
La trama delle vicende raccontate dall’autore, mentre fa emergere la verità psicologica delle figure,
è guidata da interrogazioni sul possibile che un narratore vero, quando si innamora dei suoi percorsi,
non può non agitare dentro di sé.
Raffaele La Capria, come è noto, nel suo libro L’armonia perduta, presentava lo sterminio della
classe intellettuale napoletana, avvenuta nel 1799, come un’autentica decapitazione del futuro della
città: un vero e proprio genocidio intellettuale e culturale.
Pasquale Cominale, memore di questa lezione e di questo dolore, mai veramente rimarginato, si
interroga su tutti i “possibili” che nel fiume della storia sono pur scorsi e che l’anima di un narratore
può qualche volta – come nei Sei personaggi in cerca di autore di Luigi Pirandello – far venire alla
luce. Dove il cuore batte, la fantasia lavora e, dove la fantasia lavora, l’intelligenza, inoltrata nei
concreti documenti, sa.
5) SANT’ELPIDIO DI ATELLA: UN RACCONTO FRA LA LEGGENDA E LA STORIA
In questo racconto su sant’Elpidio, Pasquale Cominale mette in opera ancora una volta la sua
visionaria capacità di leggere il possibile nel passato. Questa volta, però, c’è qualcosa in più.
A tutti sarà capitato, fin da bambini, di ricalcare su una carta velina trasparente una cartografia
sottostante. La mano del ragazzo esploratore fa emergere, attraverso il suo ricalco, le figure di una
geografia che, pur restando muta, viene identificata attraverso la selezione di linee prevalenti, più o
meno arbitrariamente preferite. L’esploratore compie, così, un duplice gesto: quello di dar figura e
parola nuova a ciò che, sottostando, tace e quello di poter trasformare una figura in sfondo e uno sfondo
in figura, facendoli – per così dire – oscillare intorno a un continuo rovesciamento di prospettiva.
Finora la mano di Pasquale Cominale si era cimentata nel colmare con la fantasia le linee
storicamente documentate. Nel caso di questo racconto, invece, l’operazione – guidata dalla consueta
passione figurativa e scritturale – è ancora più complessa. Si tratta di guardare alla cartografia
sottostante non solo a partire da linee storicamente documentate, ma anche da quelle linee che una
consolidata tradizione ha fatto sedimentare nell’immaginario e nel vissuto popolare, linee non per
questo meno significative.
La figura di Elpidio, l’africano di colore, emerge da questa complessiva struttura di dati.
L’operazione ricostruttiva dell’Autore si innesta, così, nella storia di Atella, ne segue i contorni e ne
cura lo sviluppo, dando vita e colori ai dettagli.
Le giunture fra lo storicamente accertato, il popolarmente trasmesso e il visionariamente percepito si
fanno parola unica, senza lasciare visibili tracce. Ne nasce un disegno convincente e avvincente, che
non potrà non entrare nell’immaginario collettivo, di oggi e di domani.
I tempi antichissimi, col senso fantasioso e pirotecnico delle Fabulae, fondarono lo spirito di Atella;
Elpidio, col senso di un cristianesimo missionario e sorgivo, ne rifondò le macerie barbare e il senso
religioso; i tempi dell’Ottocento e del Novecento ne attivarono lo spirito civile, pur continuando a
incrociare – al proprio interno – senso dell’arte, senso del teatro, senso della vita, senso religioso, senso
della culinaria e conviviale vivacità e senso del lavoro, artigianale e contadino. Si tratta di venature
antropologiche che non sempre stanno insieme – anzi, difficilmente stanno insieme – nella storia
dell’umanità. L’interconnessione creativa fra senso dell’arte, senso religioso e senso civile sarebbe
ancor oggi, se salvaguardata e promossa al meglio, meta di civiltà: meta di una civiltà che intenda
salvarsi dall’assenza della fantasia, dall’assenza del bene comune e dall’assenza della pietà. Pasquale
Cominale, ricostruendo le sue figure a partire dal passato, cerca di darne e di proseguirne, con fede e
speranza, questa – nonostante tutto – vivente identità.
6) UN RACCONTO NORMANNO NELLA VICENDA DI UNO STILE
La scrittura di Pasquale Cominale sembra costantemente dipanarsi, come la macchina della seta di
san Leucio, intorno a sei modalità narrative, di cui la sua capacità visionaria, che legge il possibile nel
reale, è il nascosto elemento motore. Si tratta di sei modalità prospettiche che costituiscono, al tempo
stesso, sei preferenze stilistiche ed espressive.
Vediamole una alla volta.
1) Una sempre presente vicenda di cavalieri armati, che segnano l’atmosfera di un’avventura. È qui
ricorrente il gusto per lampi di metalli, per scintillii di spade, per l’emergere di conventi e badesse, per
sfide tra personaggi, per scontri e riposi guerrieri.
2) Una squisita attenzione agli scenari, descritti e accompagnati da una mano attentissima ai dettagli.
Una parola pastosa, qui, si sfarina tra le cose e tutte le contorna con un gusto smaltato. Esercitato con
cura e al rallentatore.
3) Un ricorso, sempre fresco, ai dialoghi, raccontati come luoghi e tempi in cui, nell’incontro tra
figure, traspaiono improvvisi lampi sapienziali.
4) Una meticolosa strategia degli intrecci, qualche volta condotti fino al parossismo, per incatenare e
scatenare l’attenzione del lettore, avvincendolo come all’interno di un giallo non dichiarato.
5) Una persistente attenzione al mondo dei fatti storici e alla cornice che essi possono costituire per
le possibili esistenze di ogni tempo.
6) Una calibrata attenzione a toni stilistici accarezzati, quasi vellutati, in un gioco di giunture
sillabiche e ritmiche accuratamente studiate.
Ma queste sei modalità narrative sono sempre specificamente qualificate dal particolare carattere
dell’autore. Vediamole, anche adesso, una alla volta.
1) Le vicende armate non sono costruite secondo i puri stilemi degli avvenimenti di cappa e spada,
perché sono sempre calati nei vestiti dei nostri tempi quotidiani, attualizzati nella vita presente.
2) L’attenzione agli scenari, sempre realizzata con un gusto da sceneggiatore, non si presenta
soltanto nella sua inalterabile serenità, perché è sempre accompagnata e connotata dalla psiche dei
personaggi che vi si muovono.
3) La cura dei dialoghi è sempre attenta a far emergere cortocircuiti di botta e risposta, con lampi di
improvvisa sentenziosità.
4) La strategia degli intrecci è sempre scortata dal desiderio di preparare, in modo composito, un
latente colpo di scena finale.
5) L’attenzione ai fatti storici è sempre attraversata dall’intenzione di entrare in due falle specifiche
che la storia documentaria – ogni storia documentaria – sempre, suo malgrado, nasconde: il “possibile”
che non è conosciuto e le interiorità che non sono visibili.
6) La vigilanza stilistica è sempre connotata dall’intenzione dell’autore di spiare i personaggi che
attraverso quello stile sono raccontati.
Anche qui, in questo racconto, le strutture narrative, pur diversamente declinate, ruotano, come a
raggiera. Ciò che circola, intanto, senza sosta, come un filo invisibile e insidioso, eppur sempre
presente, è il “mysterium iniquitatis”, quella umana materia oscura che è fatta di cattiverie sommerse:
nere, gratuite, imprevedibili e inquietanti. Questo nodo profondo può avere un suo simbolo stilistico, di
carattere metamorfico: è il reciproco convertirsi – in un gioco spaesante e feroce – fra la spada e la
croce.
Un flusso nudamente umano, così, scorrendo nei fondali, tutto dissimula e inquina. Lo stile è, come
al solito in questo autore, descrittivo, rallentato, teatrale, sorvegliato, a volte in bilico fra la solennità
del contesto e la felinità dello scatto. L’intero percorso narrativo si svolge, in realtà, nel suo fondo,
sempre come un fiume in cerca di pace. Fino all’apparizione – quasi sempre lungamente covata – di un
lampo sulfureo finale, che il lettore non si aspettava e che lo scrittore ha, perfino a sua insaputa, estratto
dal suo ultimo inconscio.
Ogni racconto di Pasquale Cominale sembra l’esplorazione di un segreto, nella quale il suo autore
confessa – anzi non confessa nemmeno a sé stesso – antichi percorsi vissuti fra aspirazioni e paure.
Anche in questo racconto lo choc terminale non è risparmiato a chi legge. Ma la specificità della
tessitura è tutta nella strategia dei fili che l’hanno, come in un nascosto eros, lungamente preparata e
composta.
Lo choc finale, però, nello stile di Pasquale Cominale, non è mai fine a sé stesso, perché mira a
lasciare uno strascico speciale: in termini di amarezza, di meditazione, di bilancio esistenziale e di
possibile, mai rinunciabile, speranza di redenzione.
13 dicembre 2024
Giuseppe Limone
[email protected]
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www.rivistapersona.it
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